mercoledì 3 Luglio 2024

Gli Stati Uniti hanno imposto nuovi dazi contro le merci cinesi

Gli Stati Uniti hanno annunciato drastici aumenti dei dazi doganali sulle merci cinesi per un valore complessivo di 18 miliardi di dollari. Si intensifica, dunque, la guerra commerciale tra USA e Cina che prosegue ormai dai tempi dell’amministrazione Trump, il quale ne aveva fatto uno dei suoi cavalli di battaglia. Non sembra fare eccezione in questo senso l’amministrazione democratica del presidente Joe Biden, il cui obiettivo è proteggere le aziende statunitensi da quella che viene considerata una concorrenza sleale. Nello specifico i nuovi dazi intendono colpire una dozzina di settori industriali considerati strategici, tra cui quelli dei semiconduttori, dei minerali critici, dei prodotti medici e dei veicoli elettrici. Washington accusa Pechino di sovrapproduzione in questi settori – in particolare per quanto riguarda le auto elettriche, le batterie, i pannelli solari e altre tecnologie “verdi” – generando un eccesso di domanda interna e quindi un aumento di esportazioni a basso costo che minacciano le aziende statunitensi e occidentali. Il Dragone è accusato, inoltre, di elargire eccessivi sussidi statali alle aziende cinesi. Da qui l’idea di adottare un approccio protezionista con un aumento delle tariffe doganali: nel dettaglio, quella sulle auto elettriche aumenterà dal 25% al 100%, quella sull’acciaio, sull’alluminio e sulle batterie dal 7,5% al 25%, la tariffa sui semiconduttori, invece – che ora si applicherà anche ai pannelli solari e ad alcuni prodotti medici – aumenterà dal 25% al 50%.

L’imposizione di nuove e più alte tariffe da parte degli Stati Uniti non arriva di certo inaspettata: fin dal suo ultimo viaggio in Cina agli inizi di aprile la Segretaria al Tesoro USA, Janet Yellen, aveva avvertito il gigante asiatico delle conseguenze nefaste per l’economia mondiale – e occidentale in particolare – derivanti dalla sua eccessiva capacità produttiva. Il Dragone, tuttavia, non ha accolto tali preoccupazioni, considerando – al contrario – di raddoppiare gli investimenti nei settori dell’alta tecnologia. Agli avvertimenti diplomatici, dunque, la potenza a stelle e strisce ha fatto seguire i fatti, scatenando la reazione stizzita di Pechino: «Queste misure ingiuste rischiano di compromettere la cooperazione bilaterale», si legge in un comunicato del Ministero del Commercio cinese (MOFCOM) che invita Washington a revocarle. Secondo funzionari cinesi, le accuse mosse alla politica commerciale della Citta Proibita sono un pretesto per intraprendere azioni protezionistiche e prepotenti contro le industrie emergenti della nazione asiatica. Pechino ha anche chiamato in causa l’Organizzazione mondiale del Commercio (World Trade Organization – WTO), affermando che l’organismo internazionale già in passato aveva stabilito che «i dazi statunitensi violano le regole». Si tratta di un muro contro muro in cui nessuna delle due parti è disposta a “patteggiare”, in quanto entrambe hanno lo stesso obiettivo: proteggere e sviluppare l’industria e il commercio nazionale. Washington però intende anche frenare l’ascesa del Dragone che rischia, presto o tardi, di spodestare gli USA dal podio economico di prima potenza globale.

A tal fine, Yellen ha sottolineato la necessità di garantire lo stimolo fornito dall’IRA (Inflation Reduction Act), il disegno di legge approvato nel 2022 per combattere l’inflazione che prevede investimenti storici per la transizione energetica elargiti alle aziende sotto forma di crediti d’imposta. In particolare, il governo statunitense ha investito, attraverso l’IRA, oltre 860 miliardi di dollari per accelerare la produzione di auto elettriche, batterie per veicoli, pannelli solari e turbine eoliche fabbricate in USA. La legge statunitense è considerata in contrasto con le regole del WTO e ha provocato forti preoccupazioni in Europa: il rischio, infatti, è che i generosi incentivi erogati dall’IRA per stimolare il “Made in USA” inducano anche le imprese europee a delocalizzare oltreoceano. Washington ha, dunque, risposto a Pechino con gli stessi strumenti che contesta al gigante asiatico segnando, di fatto, la fine della globalizzazione e infrangendo il dogma del libero mercato che è stato – fino a poco tempo fa – il vessillo del “mondo libero”, ossia della “civiltà occidentale”. Una strada già intrapresa con determinazione dal governo Trump che, nel luglio del 2018, affidandosi alla Sezione 301 del Trade Act (1974), aveva imposto dazi radicali su alcune merci cinesi inizialmente per un valore che oscillava tra i 50 e i 60 miliardi di dollari a cui era poi seguita una guerra commerciale sempre più serrata tra le prime due economie mondiali.

Oggi, nel momento in cui non è più conveniente per la loro economia, gli USA si stanno repentinamente allontanando dalla liberalizzazione dei mercati dopo averla imposta – per decenni – a buona parte del mondo e soprattutto ai Paesi in via di sviluppo, danneggiando gravemente le economie di questi ultimi, attraverso negoziati iniqui. In altre parole, si inizia ad intravedere il mondo post-globalizzazione che va di pari passo con la messa in discussione dell’egemonia statunitense, minacciata sul piano economico e militare non solo dalla Cina. La stessa Yellen, del resto, in un discorso del 2022 al Science Park del conglomerato sudcoreano LG a Seul, ha dichiarato che si va verso una globalizzazione «riservata agli amici», ossia ai soli Paesi liberali. Nel frattempo, altre nazioni avrebbero condiviso i timori della Casa Bianca rispetto alle capacità di produzione cinesi, tra cui l’Unione Europea, la Turchia, il Brasile e l’India.

Si attendono ora possibili misure di ritorsione da parte della Cina, poiché il ministero degli Esteri cinese ha promesso di adottare «tutte le misure necessarie» per salvaguardare i diritti e gli interessi legittimi della nazione. La guerra economica tra le due superpotenze è, dunque, appena cominciata e potrebbe portare ad un cambiamento radicale degli assetti economici globali.

[di Giorgia Audiello]

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