giovedì 21 Novembre 2024

Pena di morte: nel 2023 il numero di esecuzioni è stato il più alto da quasi un decennio

Il numero delle condanne a morte eseguite in tutto il mondo nel 2023 è il più alto mai registrato dal 2015. È quanto emerge dall’ultimo rapporto diffuso da Amnesty International, che da un decennio collabora con la task force contro la pena di morte istituita dal Ministero degli affari esteri. Nello specifico, dalla ricerca emerge che l’anno scorso hanno avuto luogo ben 1153 esecuzioni – il 31% in più rispetto alle 883 del 2022 -, mentre sono state emesse 2428 condanne alla pena capitale, circa il 20% in più rispetto all’annata precedente. L’unico dato positivo che si ricava dalla ricerca è che il numero di Paesi che hanno eseguito le condanne a morte – sedici – è al minimo storico.

Il rapporto spiega che l’89% del totale delle esecuzioni registrate sono avvenute in Iran (il 74%) e in Arabia Saudita (il 15%). L’importante aumento del totale globale, scrive Amnesty, è fra l’altro primariamente dovuto “a un picco nelle esecuzioni in Iran” (aumentate del 48% rispetto alle 576 del 2022 e più che raddoppiate dalle 314 del 2021), che è particolarmente evidente in riferimento alle esecuzioni effettuate per reati legati alla droga, passate “da 255 nel 2022 a 481 nel 2023”. Nel rapporto si denuncia inoltre che, in Iran, almeno 5 persone sono state messe a morte “per reati commessi quando avevano meno di 18 anni”. Nel rapporto si scrive poi testualmente che “i dati totali non includono le migliaia di persone che si ritiene siano state messe a morte in Cina, che nel 2023 è rimasta il principale esecutore nel mondo”, poiché “le informazioni sulla pena capitale sono classificate come segreti di stato”. Inoltre, Amnesty non è riuscita a determinare “delle cifre minime attendibili riguardo le condanne eseguite nella Repubblica Democratica Popolare di Corea (Corea del Nord) e in Vietnam, paesi in cui si ritiene si continuino a mettere a morte persone in modo estensivo”. L’organizzazione ha inoltre evidenziato che, per il 15esimo anno di fila, gli Stati Uniti sono stati l’unico Paese a eseguire condanne alla pena capitale in tutto il continente americano. In particolare, il numero delle esecuzioni effettuate negli USA ha subito un’impennata del 33%, passando da 18 nel 2022 a 24 nel 2023. Nel report, Amnesty ha denunciato che “persone con disabilità mentali o intellettive sono state condannate a morte in diversi paesi, tra cui Giappone, Maldive e Stati Uniti d’America”, e in molti altri “sono state inflitte condanne a morte dopo procedimenti giudiziari non in linea con gli standard internazionali sul giusto processo”. Quattro Paesi, ovvero Cina, Iran, Arabia Saudita e Singapore, hanno messo a morte delle donne.

Se le esecuzioni registrate aumentano in maniera importante rispetto al 2022, sono comunque sempre meno i Paesi che le attuano. Non risulta, infatti, che siano state messe a morte persone in Bielorussia, Giappone, Myanmar e Sudan del Sud, tutti Paesi che “avevano invece eseguito condanne a morte nel 2022 (quando erano risultati 20 i paesi ad averne eseguite)”. Lo stesso discorso vale per le condanne a morte: in cinque nazioni – Bahrain, Comore, Sudan, Sudan del Sud e Zambia –, a differenza di quanto accaduto nel 2022, non sono state emesse. Sono quattro i metodi di esecuzione dei condannati a morte utilizzati nel mondo: l’impiccagione in Bangladesh Egitto Iran Iraq Kuwait Singapore Siria; la fucilazione in Afghanistan, Cina, Corea del Nord, Palestina, Somalia e Yemen; l’iniezione letale in Cina, Stati Uniti d’America e Vietnam; la decapitazione in Arabia Saudita.

Nel gennaio di quest’anno, aveva destato molto scalpore l’uccisione tramite ipossia da azoto di un condannato a morte negli Stati Uniti. Un metodo mai utilizzato prima per le pene capitali – considerato inaccettabile anche come forma di eutanasia per gli animali –, sperimentato dall’Alabama sul 58enne Kenneth Eugene Smith, condannato per omicidio e detenuto nel braccio della morte da 35 anni, che nel 2022 era sopravvissuto a un’iniezione letale. A muoversi, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, era stata proprio Amnesty International, che aveva scritto in un comunicato che “l’esecuzione tramite un metodo mai provato potrebbe essere estremamente dolorosa e costituire tortura o altro trattamento o punizione crudele, inumana e degradante, in violazione di norme internazionali ratificate dagli Usa” e aveva chiesto fino all’ultimo alla Governatrice dello Stato di fermare la procedura. Senza successo.

[di Stefano Baudino]

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