giovedì 21 Novembre 2024

La “proposta di pace” di Israele ad Hamas: ridateci gli ostaggi, noi continuiamo a bombardare

Nelle scorse ore il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha presentato l’ultimo piano israeliano per il raggiungimento della pace e del cessate il fuoco a Gaza. Nonostante i pochi dettagli, il grosso dei media lo sta già descrivendo come un generoso programma di mediazione con l’auspicio che esso venga accolto da Hamas. In verità, guardando le dichiarazioni dello stesso ufficio del Primo Ministro israeliano e l’indiretto botta e risposta tra le due parti, l’interpretazione israeliana del piano di pace presentato risulterebbe abbastanza evidente: Hamas dovrebbe riconsegnare tutti gli ostaggi e in cambio Isaele continuerebbe a bombardare indiscriminatamente la Striscia. Lungi dal cercare un’autentica soluzione per la crisi umanitaria che da ormai quasi otto mesi soffoca il territorio palestinese, il piano israeliano esposto da Biden sembrerebbe insomma sfociare nel solito gioco mediatico volto a giustificare il massacro dei civili palestinesi, scaricando la colpa del mancato raggiungimento di un accordo di tregua sulla controparte.

Il piano presentato da Biden è diviso in tre fasi: durante la prima, della durata di sei settimane, la Striscia dovrebbe vivere un «pieno e completo cessate il fuoco», e avverrebbe il ritiro delle forze israeliane da «tutte le aree popolate di Gaza»; inizierebbe così un iniziale scambio di ostaggi israeliani, inclusi anziani, feriti, e donne, in cambio di «centinaia» di prigionieri palestinesi; in questa stessa fase, verrebbero liberati anche prigionieri statunitensi. Nelle sei settimane di fase uno, parte dei corpi dei defunti ostaggi israeliani dovrebbero venire consegnati alle famiglie così da fornire «una prima chiusura» al momento di lutto dei parenti delle vittime, e i palestinesi potrebbero tornare nelle loro case. In aggiunta a ciò, in virtù della deposizione delle armi, potrebbero entrare fino a 600 camion di aiuti umanitari al giorno per fornire assistenza ai civili palestinesi massacrati dall’esercito israeliano. Durante questi 42 giorni, rappresentanti diplomatici aprirebbero un canale di comunicazione per le negoziazioni della seconda fase della pace, ma se le vie diplomatiche dovessero sforare le sei settimane, il cessate il fuoco verrebbe garantito col sostegno di USA, Egitto e Qatar. Entrati nella «fase due», ci sarebbero lo scambio dei rimanenti ostaggi, inclusi i soldati maschi, e il ritiro completo delle forze israeliane. Stando a quanto dice Biden «fino a che Hamas rispetterà i propri impegni, il cessate il fuoco diventerà, per usare le parole della proposta israeliana, ‘una cessazione delle ostilità permanentemente’». Nella terza fase verrebbe portato avanti un piano di ricostruzione per Gaza, e verrebbero restituiti gli ultimi corpi dei defunti.

Letto nei suoi punti chiave il piano abbozzato da Biden in conferenza stampa sembra avanzare un progetto equilibrato e propositivo, cosa abbastanza curiosa visto quanto mostrato da Israele negli ultimi mesi di trattative. Hamas ha infatti risposto positivamente all’invito con una dichiarazione comparsa sul suo canale Telegram alle 22.26. Appena 15 minuti dopo, però, è arrivata una prima risposta da Israele: alle 22.41, l’account X dell’ufficio del Primo Ministro ha pubblicato un post in cui spiega che Netanyahu ha autorizzato il team di negoziazioni a «presentare una proposta che consentirebbe a Israele anche di continuare la guerra fino a che tutti i suoi obiettivi non vengano raggiunti, inclusa anche la distruzione delle capacità militari e governative di Hamas», specificando che la proposta letta da Biden «inclusa la fase di transizione dalla fase 1 alla successiva» risponde alle esigenze dello Stato ebraico. Probabilmente in risposta a ciò, all’01.12, il Canale di Hamas ha riportato una dichiarazione di uno dei leader del gruppo, che ha comunicato di non avere ancora ricevuto nessun vero dettaglio sull’operazione, e chiesto al Presidente degli Stati Uniti di esercitare pressioni su Netanyahu affinché egli risponda positivamente all’appello. L’esponente di Hamas ci ha inoltre tenuto a specificare come «nessun accordo potrà essere raggiunto prima che le richieste di ritiro dell’occupazione dell’esercito israeliano, e di cessate il fuoco siano rispettate». A chiudere quello che sembrerebbe un ufficioso botta e risposta – perché i messaggi e le dichiarazioni delle parti non fanno mai esplicito riferimento al proprio interlocutore – è tornato l’ufficio del Primo Ministro israeliano, che stamattina alle 09.52, ha ribadito che «le condizioni di Israele per terminare la guerra non sono cambiate: la distruzione delle capacità militari e governative di Hamas, la liberazione di tutti gli ostaggi e assicurare che Gaza non costituisca minaccia a Israele», specificando che «l’idea che Israele accetti un cessate il fuoco permanente prima che queste condizioni vengano soddisfatte è fuori discussione». Ad aggiungersi alla “conversazione” sono il Jihad Islamico Palestinese (JIP) e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), che hanno rilasciato due comunicati, rispettivamente alle 11.27, e alle 12.25: il JIP ha scritto di «vedere con sospetto» la proposta statunitense, e ha rilanciato le proprie condizioni di pace, analoghe a quelle di Hamas; l’FPLP ha invece denunciato con forza la complicità di Biden nel genocidio del popolo palestinese, sostenendo che il Presidente USA non può ricoprire il ruolo di mediatore, e ha a sua volta ribadito che la pace deve passare per «una completa cessazione delle aggressioni contro il nostro popolo, il ritiro dell’occupazione, la fine dell’assedio, e la ricostruzione».

Da questo scambio informale di dichiarazioni, il vero “piano di pace” Israele risulterebbe chiaro: Hamas dovrebbe riconsegnare tutti gli ostaggi mentre intanto Israele continuerebbe senza soluzione di continuità a bombardare a tappeto la Striscia, così da terminare quanto iniziato. E questo effettivamente, sta succedendo. Dall’escalation del 7 ottobre Israele ha ucciso almeno 36.284 persone, ferendone più di 80.000; a inizio maggio, è iniziata la maxi-operazione a Rafah, che, nonostante gli ordini della Corte Internazionale di Giustizia, non solo non si è fermata, ma si è addirittura intensificata. Il 26 maggio, dopo l’attacco lanciato dal braccio armato di Hamas su Tel Aviv, Israele ha infatti lanciato otto bombe su un campo profughi situato nella stessa città, uccidendo almeno 45 persone, molte delle quali sono morte arse vive.

[di Dario Lucisano]

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