lunedì 30 Dicembre 2024

Repubblica Democratica del Congo: cittadini occidentali a processo per tentato colpo di Stato

Sei cittadini occidentali, di cui tre statunitensi, sono finiti a processo nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) per aver preso parte, lo scorso 19 maggio, ad un fallito colpo di Stato, nel tentativo di rovesciare il governo del presidente Felix Tshisekedi. La RDC è uno degli Stati africani più ricchi di terre rare e minerali fondamentali per la produzione di prodotti tecnologici, come stagno, tungsteno e tantalio e, per questa ragione, la Nazione è attraversata ormai da trent’anni da un cruento conflitto scaturito dalla lotta per il controllo di queste risorse. È in questo contesto politico-militare che 53 uomini armati hanno partecipato al tentativo di golpe, comparendo pochi giorni fa in tribunale con l’accusa di possesso illegale di armi, associazione a delinquere, terrorismo e tentativi di destabilizzare le istituzioni statali e minare l’integrità dello Stato. Alcuni di loro rischiano la pena di morte, reintrodotta nel marzo del 2024 dopo vent’anni di moratoria. L’insurrezione è stata guidata dall’uomo d’affari, ex militare e politico congolese, residente negli Stati Uniti, Christian Malanga. Tra i cittadini statunitensi imputati figurano il figlio ventiduenne di quest’ultimo, Marcel Malanga, e Benjamin Zalman-Polun, identificato come «imprenditore della cannabis» e socio in affari di Malanga in un articolo del 2022 di Africa intelligence. Secondo alcune fonti sarebbe anche un ex soldato delle forze speciali della US Army. Tutti i cittadini occidentali coinvolti nel fallito colpo di Stato hanno origini congolesi. Lucy Tamlyn, l’ambasciatrice degli Stati Uniti nella RDC, su X ha espresso «shock e preoccupazione» per la vicenda: «Vi assicuriamo che collaboreremo al massimo con le autorità della RDC mentre indagano su questi atti criminali e riterremo responsabile qualsiasi cittadino statunitense coinvolto in atti criminali».

Il 19 maggio, decine di uomini armati e in divisa militare, hanno assaltato la residenza di Vital Kamerhe, un legislatore federale alleato di Tshisekedi e favorito a diventare portavoce dell’Assemblea Nazionale. Gli stessi hanno attaccato anche il Palazzo della Nazione, la residenza ufficiale del presidente, anche se Tshisekedi la usa raramente e non era presente in quel momento. Entrambe le località si trovano a circa due chilometri di distanza l’una dall’altra nella zona di Gombe, che ospita anche numerosi altri uffici governativi e ambasciate. In un video presente su X, Malanga – durante l’insurrezione – dichiara che «noi militari siamo stanchi […] Non possiamo trascinare Tshisekedi e Kamerhe, hanno fatto troppe cose stupide in questo Paese». Malanga è stato ucciso dopo aver fatto resistenza all’arresto. L’uomo d’affari congolese a capo della rivolta aveva già contestato le elezioni presidenziali del 2011 e, dopo essere stato detenuto per diverse settimane, si era recato negli Stati Uniti, dove aveva fondato il Partito Congolese Unito (UCP) di opposizione e dove già la sua famiglia di origine ottenne asilo politico quando era bambino. Secondo funzionari congolesi, inoltre, Malanga aveva già tentato un colpo di Stato nel 2017. Alcuni analisti, come Albert Malukisa Nkuku, professore dell’Università Cattolica del Congo, nutrono dubbi circa le modalità e le finalità del colpo di Stato, apparentemente amatoriale: l’ipotesi più plausibile è quella che Malanga sia stato tradito dai suoi sostenitori. «Perché iniziare un attacco alla residenza di Vital Kamerhe e perdere già una grande quantità di munizioni prima di finire al Palazzo della Nazione?», ha chiesto il docente congolese.

Il golpe si è verificato in un contesto politico molto instabile a causa di una guerra trentennale che devasta il Paese per il controllo delle risorse minerarie: da sempre terra di saccheggio, oggi più che mai, la RDC è al centro della partita per il possesso delle terre rare e dei minerali preziosi. La RDC è una delle terre più ricche di tantalio e le sue risorse sono oggetto di razzia da parte dei Paesi vicini come il Ruanda, che si appropria illegalmente del tantalio della RDC per rivenderlo alle potenze occidentali, tra cui gli Stati Uniti. A causa della fragile struttura politica e del dilagare di decine di gruppi armati oltre ad eserciti regolari e caschi blu dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, le principali regioni orientali della Nazione (Nord e Sud Kivu e l’Ituri) – le più ricche di minerali – sono al centro di un conflitto sanguinario con gravi ripercussioni sulla popolazione. Nell’ambito di questa guerra, le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC) hanno ingaggiato una battaglia con il Movimento del 23 marzo (M23), accusato di essere finanziato dalla confinante e rivale Ruanda, che vende i minerali rubati alla RDC anche e soprattutto alle grandi multinazionali tecnologiche occidentali. In questa intricata partita d’interessi dove i più grandi attori globali cercano di mettere le mani sulle ricchezze di Kinshasa (la capitale della RDC), non si può escludere che dietro al golpe fallito ci sia la presenza di qualche attore geopolitico internazionale, sebbene al momento non vi siano indizi significativi al riguardo. Del resto, nonostante la presenza di cittadini americani, tra cui un ex soldato americano, l’Ambasciata americana a Kinshasa ha immediatamente negato ogni coinvolgimento. Una vicenda che però ha provocato forte imbarazzo per l’amministrazione statunitense.

[di Giorgia Audiello]

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