mercoledì 17 Luglio 2024

Salvini riporta al 1896 le norme sugli appartamenti, e la chiama riforma “salva casa”

“Se non hanno più case, che abitino in quelle alte 2,4 metri e con una superficie di 20 metri quadri”. Sarà andata più o meno così in via Bellerio quando i cervelli della Lega hanno elaborato la riforma “salva casa”, dando il via libera ai «micro monolocali» (sic!). Il colpo di mano è contenuto in un emendamento al decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69, recante disposizioni urgenti in materia di semplificazione edilizia e urbanistica, la cui conversione in legge è attualmente in discussione alla Camera. La misura, subito rivendicata da Matteo Salvini come la soluzione alle necessità di studenti e lavoratori, «supera una legge in piedi dal 1975 (!)». Il segretario della Lega dimentica però di aggiungere che così facendo si annulleranno le modifiche alle disposizioni del 1896, quando il governo era guidato da Antonio Starabba, marchese di Rudinì. L’emendamento approvato in Commissione Ambiente della Camera cancella dunque oltre un secolo di vittorie sociali e fa rivivere agli italiani i tempi in cui il popolo era assoggettato ai privilegi nobiliari.

Il caro-affitti continua a sgretolare il potere di acquisto di chi vive in Italia, l’unico Paese europeo in cui i salari reali non sono cresciuti negli ultimi trent’anni. Per rispondere all’emergenza abitativa la Lega ha pensato bene di «riabilitare finalmente tante proprietà, rendendo abitabili anche quelle con 2,40m di altezza e con una superficie di 28 mq per 2 persone e di 20 mq per 1 persona», scrive Salvini su X. Se la proposta dovesse passare alla Camera prima e al Senato poi verrebbe abrogata la normativa vigente, la quale prevede che “l’alloggio monostanza, per una persona, deve avere una superficie minima, comprensiva dei servizi, non inferiore a mq 28, e non inferiore a mq 38, se per due persone”. Il decreto ministeriale Sanità 5 luglio 1975 fissa inoltre a 2,70 metri l’altezza minima per le abitazioni, migliorando la situazione risalente al 1896, quando l’articolo 122 delle istruzioni ministeriali stabiliva che “l’altezza delle camere d’abitazione non [dovesse] essere inferiore a 2,50 metri”. I micro monolocali della Lega scendono sotto questa soglia, per un tuffo a piè pari nel passato.

Il decreto ministeriale Sanità 5 luglio 1975 – recante modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 – venne adottato dal governo Moro IV, al culmine di un’intensa mobilitazione promossa da collettivi di base, sindacati e partiti dell’area socialcomunista. Si ricordano, tra le varie iniziative per ottenere la tutela del diritto alla casa, le occupazioni di edifici sfitti e in disuso, spesso represse violentemente dalle forze dell’ordine. Iniziative che vanno inquadrate in un più ampio filone di mobilitazioni capace di portare in Italia, tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’70, un’inedita ventata di diritti, come quello riguardante il divorzio (1970), il lavoro (con lo Statuto del ’70) o l’aborto (1974).

Il diritto alla casa, funzionale al godimento di una vita dignitosa, è tra i temi più costanti delle agende, tanto mediali quanto del pubblico. Un tema oggi associato all’emergenza, vista la crescita vertiginosa dei prezzi degli alloggi: stando alle ultime rilevazioni, affittare una stanza singola a Venezia costa in media 577 euro, a Roma 610 euro e a Milano 730 euro. Un tema che la narrazione dominante bolla come divisivo (per usare una parola di moda ultimamente), mettendo di fronte chi vorrebbe un tetto sulla testa a un prezzo umano e chi invece, in nome della “libertà economica”, pretende di poter possedere senza alcun vincolo decine di case, in bilico tra l’affittarle per lunghi periodi o il caricarle su AirBnB, moltiplicando in questo caso i guadagni. I turisti (e la trasformazioni delle città in mega souvenir) ringraziano; studenti, lavoratori e famiglie un po’ meno.

Lasciato a sé, l’homo economicus tende a massimizzare i profitti e a non curarsi delle questioni sociali che comportano le proprie azioni. La Costituzione italiana, però, non prevede come unica libertà quella economica; andrebbe ad esempio riletto l’articolo 42, che assegna un preciso scopo sociale alla proprietà privata. C’è poi tutta una schiera di diritti civili, sociali e politici che vengono quotidianamente invalidati dalle disuguaglianze economiche e dalla mancanza di pari opportunità. In Italia gli interventi delle istituzioni latitano o lasciano il tempo che trovano, mentre il resto del mondo si muove: poche settimane fa il comune di Barcellona ha annunciato che dal 2029 vieterà gli affitti brevi nel centro; l’anno scorso il Portogallo ha annunciato un piano per affittare o acquistare oltre 700mila edifici abbandonati per poi subaffittarli a prezzi sociali.

In Italia l’edilizia residenziale pubblica (riguardante le cosiddette case popolari) rappresenta soltanto il 4% dello stock abitativo, a fronte di una media europea del 20%. C’è poi la questione degli studentati, che in teoria dovrebbe essere affrontata attraverso i fondi del PNRR, legati alla realizzazione, entro il 30 giugno 2026, di 60 mila posti letto. Un obiettivo ambizioso, il cui raggiungimento (almeno formale) a tutti i costi rischia di passare dal favore alla speculazione privata. Il decreto ministeriale del 26 febbraio scorso, con cui è stato lanciato il bando da 1,2 miliardi di euro, presenta infatti diversi coni d’ombra: gli alloggi saranno affittati agli studenti con uno sconto del 15 per cento rispetto al prezzo di mercato, la quota degli alloggi da destinare “agli studenti meritevoli e provenienti da famiglie a basso reddito” è stata fissata al 30 per cento, i privati avranno l’obbligo di impegnare i posti letto – per ciascuno dei quali riceveranno subito 20 mila euro – per 12 anni.

[di Salvatore Toscano]

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