giovedì 21 Novembre 2024

Strage del Vajont: dopo 60 anni il Senato ha ammesso che ci furono delle responsabilità

Era la sera del 9 ottobre 1963 quando il monte Toc franò nel bacino del Vajont, causando la tracimazione di 260 milioni di metri cubi d’acqua che ingoiarono la valle, provocando la morte di quasi 2mila persone. Oltre 60 anni dopo, il Senato italiano ha eliminato la parola “incuria” dalla legge in memoria della catastrofe, un atto di tardiva giustizia per ammettere che vi furono responsabilità dirette delle amministrazioni locali e nazionali per aver omesso di valutare le criticità dell’opera, che erano state segnalate a più riprese prima della tragedia. Per anni, infatti, diversi documenti e il lavoro d’inchiesta della giornalista Tina Merlin attestarono smottamenti e crepe nella diga, che era stata progettata e costruita dalla Sade, una delle più fiorenti società idroelettriche d’Italia, assorbita dall’Edison nel 1962 e poi confluita nella Montedison. Tuttavia, non venne fatto nulla e l’indomani del 9 ottobre 1963 la politica pianse la “tragedia naturale”. La decisione del Senato, arrivata in seguito ad anni di richieste da parte delle comunità locali e delle associazioni dei superstiti della strage, dovrà ora essere ratificata in via definitiva dalla Camera dei Deputati.

La rimozione del termine “incuria” dalla legge sulla memoria del Vajont è stata proposta da Marco Dreosto, segretario della Lega del Friuli Venezia Giulia. La modifica non è nemmeno dovuta passare dall’aula di Palazzo Madama, essendo il frutto di una decisione unanime della commissione Affari Costituzionali. La sera della tragedia, 270 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dal versante nord del monte Toc, abbattendosi nel bacino del Vajont. L’impatto generò un’onda alta 250 metri che colpì Casso, Erto, il Longarone e la Valle del Piave. Il disastro provocò la morte di 1918 persone, tra cui 487 bambini e adolescenti. Il processo penale sulla strage iniziò nell’ottobre del 1968 davanti al Tribunale de L’Aquila, concludendosi in Cassazione nel marzo del 1971, solo due settimane prima che maturasse la prescrizione. A essere condannati, rispettivamente a 5 anni e 8 mesi e a 3 anni e 8 mesi per i reati di inondazione aggravata dalla previsione dell’evento, frana e omicidi, furono soltanto Alberico Biadene (responsabile in capo della diga) e Francesco Sensidoni (ingegnere capo del servizio dighe). Entrambi, però, beneficiarono di 3 anni di condono. Gli altri nove imputati, tra cui figuravano anche il capocantiere, l’ispettore generale del genio civile, il geologo del servizio dighe, il dirigente ufficio studi Sade e il direttore generale Enel-Sade, furono invece assolti. Il processo civile partì nel 1971, concludendosi solo il 27 luglio del 2000 con la firma dell’accordo definitivo per il risarcimento delle vittime e dei danni causati dal disastro. Vennero individuati tre corresponsabili: lo Stato italiano e gli eredi della Sade, ovvero Enel e Montedison. Essi si ripartirono per un terzo ciascuno i 900 miliardi di oneri e danni.

Il primo sponsor politico della Sade fu il democristiano Giuseppe Togni, il quale nominò la Commissione di collaudo della diga: correva l’1 aprile 1958 e la faraonica opera sarebbe stata conclusa due anni dopo, con l’impiego di 360mila metri cubi di calcestruzzo. Dei cinque membri della Commissione, tuttavia, almeno due avevano un palese conflitto di interessi. Nel 1957, la Sade aprì il cantiere senza aspettare l’autorizzazione da Roma. Non attese nemmeno il via libera ministeriale per il collaudo dell’invaso, prima che a novembre 1960 sul monte Toc, sul versante sinistro del lago, comparisse un’enorme cicatrice lunga quasi due chilometri e mezzo, a circa due terzi della pendice. Sotto alle case, ai prati e ai boschi c’era infatti una paleofrana destinata a scivolare inesorabilmente verso il bacino della Sade. A raccontare sulle colonne de L’Unità le vicende di Erto e Casso, dei paesi e della gente di montagna che veniva sfrattata dalle proprie case e dalle proprie terre per fare spazio alla Sade e al suo grande progetto di produrre e vendere elettricità per il Paese fu la coraggiosa giornalista Tina Merlin, che denunciò il pericolo della diga. Denunciata per notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico per un articolo del 5 maggio 1959 intitolato “La Sade spadroneggia, ma i montanari si difendono”, venne assolta con formula piena dal giudice Angelo Salvini nel novembre del 1960. Nonostante ciò, si continuò il progetto, nascondendo le prove e l’evidenza dei fatti. Mentre negavano il pericolo, infatti, gli esperti, per conto della Sade, nel 1961 progettavano e realizzavano un tunnel di “sorpasso frana”, ovvero una galleria lunga circa 1.8 chilometri (costata un miliardo di lire) che avrebbe collegato le due parti del bacino in caso di frana, garantendo al torrente Vajont la possibilità di continuare la sua corsa verso il Piave. Gli ingegneri si illusero, probabilmente, di poter gestire il tracollo semplicemente alzando o abbassando il livello dell’invaso. Proprio questa variante al progetto, in sede giudiziaria, fu considerata tra le prove che la Sade sapeva e si preparava al peggio.

[di Stefano Baudino]

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