venerdì 2 Agosto 2024

Un campione di DNA sconosciuto riapre l’eterno (e strano) caso del mostro di Firenze

Una danza macabra in scena da più di mezzo secolo, su e giù per le dolci colline fiorentine che continuano a custodire un segreto bestiale nonostante siano passati così tanti anni, nonostante il dolore, la paura, i processi, le sentenze, nonostante il disperato tentativo delle vittime di trovare finalmente pace dal loro martirio laico, dopo essere state tutte colpite e spazzate via nell’intimità dei loro amori. Il mistero dei misteri, il Mostro di Firenze, che nel frattempo si è trasformato in quintali di carte giudiziarie, articoli di giornali e pagine di libri: un’Iliade di poliziotti, giudici e giornalisti in balia di un nemico assetato di sangue e terribilmente bravo a cancellare le proprie tracce, a mimetizzarsi per tutto questo tempo tra suggestioni e ipotesi. Per questo non ha sorpreso più di tanto, in fondo, la notizia della scoperta di un profilo genetico sconosciuto legato alla scia di morte e di sangue legata al suo nome, ai nomi di chi sapeva e non ha mai parlato e ormai si è forse portato il suo segreto nella tomba. C’è un “Ignoto 1” che ha lasciato le sue impronte biologiche su un bossolo, uno degli ultimi tra le manciate di proiettili rinvenuti sulle scene della più lunga catena di omicidi seriali mai vissuta in questo Paese. Un gigantesco e infinito cold case che è ancora aperto, a cominciare dal fatto che l’arma di tutti i delitti, la Beretta 22, non è mai stata trovata.

L’ultima speranza nel DNA

Ma ora c’è forse l’ultima speranza, per i familiari, per chi è sopravvissuto a questa lunga e logorante guerra contro ombre sanguinarie, per chi ha visto la propria vita andare in pezzi sotto ai colpi di una Beretta calibro 22, per chi ha cercato in tutti i modi di catturare quelle ombre e di dargli una faccia e un nome: l’ultima speranza di togliere la maschera a chi ha ucciso e smembrato ragazzi e ragazze, giovani uomini e giovani donne, terrorizzando Firenze e l’Italia intera per quasi 20 anni. Lorenzo Iovino, un ematologo italiano che vive a Seattle e si occupa di trapianti di midollo, ha isolato una traccia genetica su uno dei proiettili Winchester Long Rifle, marchiati con la fatidica H, che hanno caratterizzato sedici omicidi dal ’60 al ’80. Il bossolo a cui si riferiscono gli accertamenti compiuti da Iovino era conficcato in un cuscino della tenda dove sono stati letteralmente scannati, basta leggere i referti medico legali e gli atti giudiziari, una coppia di francesi, Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili: l’avvocato dei familiari, Vieri Adriani, chiede comparazioni con reperti e con i profili degli indagati. La stessa sequenza genetica pare sia stata ritrovata anche su altri bossoli trovati su altre due scene del crimine, nei delitti precedenti a quello degli Scopeti: potrebbe essere la firma che il Mostro ha lasciato mentre ricaricava la sua pistola.

Pacciani e i “compagni di merende”

Pietro Pacciani, presunto corresponsabile dei delitti del Mostro, in aula durante il processo nel gennaio 1994

Correva il 1985, dal delitto che ha concluso la terribile saga. Da lì a poco sarebbe entrato in scena Pietro Pacciani, il “Vampa” che tutti conoscevano appunto come un tipo molto fumino e fumantino. Il contadino di Mercatale che è diventato nell’immaginario collettivo quasi un modo di dire, durante una vicenda giudiziaria che è passata attraverso una condanna in primo grado (1994), un’assoluzione in appello due anni dopo e la Cassazione che poi ha cancellato il secondo grado, disponendone un altro. Pacciani nel frattempo se n’è andato, lasciando dietro di sé molti più dubbi che certezze, oltre che la sensazione di atmosfere bestiali, come quella dell’omicidio dell’amante della sua ragazza, poi da lui violentata accanto a quel cadavere (correva il 1951 e gli psicologi ci hanno visto freudianamente il movente del suo accanirsi contro le coppiette), o le violenze casalinghe sulle figlie. Il suo vicino di casa, quello che nel settembre 1985 recapitò agli investigatori una lettera anonima per invitarli a scavare su di lui, tempo prima gli aveva lasciato il cane in custodia insieme alle sue scatolette di cibo e Pacciani le mise poi in tavola per farle mangiare a moglie e figlie: per dare un’idea di chi si parla e del contesto familiare. E poi Mario Vanni e Giancarlo Lotti, i suoi “compagni di merende” in quel giro balordo in bilico tra l’osceno e il violento, un sottobosco di personaggi caricaturali che faticavano a non fare errori grammaticali (“hanno morto anche quelli di Calenzano”, confessarono in aula di tribunale) e spendevano le giornate e le notti in bilico tra la perversione e il codice penale, all’ombra delle loro vite sguaiate, guardoni ma anche assassini, come ha stabilito la sentenza che li ha giudicati esecutori materiali di quattro degli otto omicidi attribuiti al Mostro. Il problema però è proprio quello: per la giustizia italiana solo la metà dei delitti del Mostro hanno avuto un giudicato, quelli dal 1982 al 1985. Gli altri sono casi ancora aperti.

Gli amanti di Signa

24 dicembre 1997. il “compagno di merende” Mario Vanni, presunto corresponsabile dei delitti del Mostro, comincia gli arresti domiciliari

E’ cominciato tutto una sera di agosto del 1968, un mercoledì 21, quando Barbara Locci, casalinga molto chiacchierata in paese, si è appartata con Antonio Lo Bianco a bordo della sua Alfa Giulietta bianca, a due passi dal cimitero di Signa, dopo essere stata con lui al cinema. Sul sedile posteriore dormiva suo figlio, il piccolo Natale, 6 anni, l’unico testimone della mattanza: i due amanti sono stati freddati durante le loro effusioni da una raffica di otto colpi, quattro a testa, e per il duplice delitto è stato poi condannato a 14 anni Stefano Mele, marito tradito. Una truce storia di corna che in realtà ha spalancato la strada alla cosiddetta pista sarda, che nelle vicende del Mostro ha tenuto banco per molto tempo, quando Mele ha tirato in ballo familiari e conoscenti e la polizia gli è stata incollata per lustri. Il collegamento tra questo che si può considerare l’Alfa di questa storia e il resto, all’alba di questa lunga teoria di omicidi e vilipendi, è la pistola. E’ stato scoperto che quella usata dal Mostro era la stessa utilizzata quella notte a Signa, tanti anni prima. Stessa Beretta, una pistola della serie 70 in dotazione a lungo alle forze di polizia, con otto colpi nel tamburo e uno in canna. Come quasi tutte le armi automatiche o semi, con espulsione dei bossoli sulla destra, un particolare che sulle scene del delitto del Mostro ha sempre raccontato molto delle sue dinamiche brutali.

Ma se a Signa è stata posta la prima bandierina sulla cartina dell’orrore, sono passati poi sei anni fino al primo dei delitti delle coppiette, come hanno ribattezzato questa strage di innamorati che sono diventati una straziante Spoon River di volti e storie. Dal 1968, dall’esecuzione degli amanti fedifraghi, bisogna arrivare al 1974 per il debutto della mente criminale che è diventato il Mostro di Firenze solo nel 1981, quando fu chiaro a tutti che c’era un omicida seriale in azione. Se c’è un filo che lega il primo caso agli altri, c’è anche stato un “buco” temporale lunghissimo e anomalo. E nessuno ha saputo spiegarlo, non fosse che nelle vicende dei crimini seriali solo il carcere per altri motivi o la morte, impediscono di uccidere agli assassini incalliti: un serial killer non si ferma mai da solo, è ostaggio per sempre dei suoi demoni.

Pasquale e Stefania: il primo delitto

Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, le prime vittime attribuite al mostro di Firenze

L’estate del 1974, allora. Quella della vittoria del “No” al referendum sul divorzio e di ruggenti classici della musica leggera passati alla radio, come “E tu” di Claudio Baglioni e “Bella senz’anima” di Riccardo Cocciante. Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini sono due ragazzini, 19 e 18 anni, e a bordo della Fiat 127 del ragazzo ascoltano musica dal mangianastri mentre si appartano tra le vigne e i campi di Borgo San Lorenzo, in località Fontanine di Rabatta, sulla strada per Sagginale. Pasquale ha appena accompagnato la sorella in discoteca, al Teen Club, all’epoca si usava ancora così, d’accordo di andare a riprenderla a mezzanotte. Ma non ci arriverà mai, Maria Cristina ha atteso inutilmente suo fratello per dure ore, mentre le famiglie dei ragazzi avevano già capito che qualcosa non andava e che era successo qualcosa di brutto: è capitato a tutti i genitori e a tutti i familiari di questa storia, la percezione della tragedia è arrivata per tutti molto presto, anche perché – farà forse sorridere ora – era un’epoca in cui i genitori davano un’ora per rientrare a casa, oppure erano i figli che avevano abitudini fisse, e non sgarravano mai. Non c’erano i telefoni cellulari, non c’erano i social e anche solo un ritardo di mezz’ora non era un bel presagio. Il Mostro sbuca dal buio pistola in pugno, tra le siepi e la vegetazione, e sorprende i due giovani nella loro intimità. Quasi sempre, nei suoi attacchi, ha preso la scena all’inizio delle effusioni delle coppie, come a volerle fermare e impedire.

Rabatta ’74, inizia il copione di morte

Stefano Baldi e Susanna Cambi, vittime del quarto delitto attribuito al Mostro di Firenze

Quello che succede alla Rabatta è un copione di morte e di violenza ripetuto poi in tutti gli altri casi, in parte con metodica abitudine criminale, in parte con un crescendo di crudeltà. Pasquale viene colpito e ucciso da cinque proiettili, ma solo uno provoca lesioni mortali: il killer non sembra un tiratore scelto, certamente non ha sempre i nervi saldi. E qualche volta apre il fuoco della Beretta 22 senza precisione, come se non prendesse nemmeno la mira, ma volesse solo far male. Stefania Pettini lotta disperatamente per sopravvivere, ma è una lotta impari, contro quello che tutti hanno sempre definito un ignoto di sesso maschile di corporatura massiccia, in alcuni casi sono state trovate vicino ai cadaveri impronte misura 44 di quelli che apparivano scarponi, forse di tipo militare. Probabilmente sotto le unghie di Stefania resta impigliata qualche traccia biologica e per questo ora si chiede la riesumazione del suo cadavere: potrebbe contenere il biglietto da visita dell’assassino. Il Mostro non ha nessuna pietà, la ammazza con tre colpi e poi infierisce sul suo corpo da ragazzina con 96 coltellate. 96 ferite da lama, punta e taglio, inferte su ventre, petto e addome. Solo tre, però, sono state considerate mortali dagli esami autoptici.

Accanimento rituale

In gergo si chiama “overkilling posticipato”, questo infierire con colpi affondati sul corpo in limine mortis. Un accanimento che è diventato una firma dell’assassino negli altri delitti, anzi nel corso del tempo ha avuto un aumento esponenziale, come se fosse accresciuta la rabbia con cui si scagliava sui cadaveri. Non solo su quelli femminili: nell’ultimo duplice del Mostro, agli Scopeti nel 1985, ha infierito con inaudita ferocia – tredici ferite da lama – sul cadavere del francese Jean Michel Kraveichvili. Così come il posizionamento del corpo della donna, che alla Rabatta come in altri casi viene lasciata in posizioni provocatorie, volgari, sconce. Il killer ricompone la scena secondo le sue fantasie e le sue ossessioni: tra le sue mani insanguinate, Stefania e le altre donne diventano manichini fatti a pezzi da esporre in modo osceno. Alla Rabatta, il Mostro inizia i suoi macabri rituali che hanno accompagnato tutti i successivi omicidi. In questo caso, appoggia un ramo completo di foglie sui genitali della ragazza. Altre volte ha strappato una catenina alla vittima, come a Caterina De Nuccio a Mosciano nel giugno 1981. Oppure ha posizionato uno stivale di una vittima dentro l’abitacolo della macchina, come la scarpa di Stefano Baldi a Travalle, nell’ottobre dello stesso anno. Altre volte ha compiuto atti difficili da decifrare, come quando ha prelevato dal pullmino dei due turisti tedeschi uccisi a Giogoli nel 1983 una rivista porno di ispirazione omosessuale e l’ha tagliuzzata, lasciandola tra gli elementi ritrovati dagli inquirenti sulla scena del crimine. Atti simbolici, forse, come il reggiseno che ha sfilato a Pia Rontini a Vicchio nel 1984, prima di sottoporla alle mutilazioni – escissioni, in termine tecnico – che hanno reso tristemente celebri le sue imprese. Il killer l’ha lasciata col reggiseno in mano, appoggiando il suo cadavere al quale ha asportato il pube e una mammella in una lugubre scenografia che sembra quasi una decorazione di una mente malata.

Scopeti ’85: l’ultima notte di sangue

Il furgone dove si trovavano i due turisti tedeschi Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch, vittime del sesto duplice omicio attribuito al Mostro

La stessa con cui l’assassino (o gli assassini, come qualcuno pensava e pensa ancora) ha concluso la sua lunga campagna di morte e terrore, nel 1985, sulla piazzola degli Scopeti, sottraendo le parti intime al cadavere di Nadine Mauriot che col suo compagno Jean-Michel aveva deciso di fermarsi per la notte in quello spiazzo in mezzo alla natura. Ma in questo caso, nell’ultimo duplice omicidio, per la prima volta l’assassino non ha attaccato una coppia nella loro macchina, i francesi erano nella tenda allestita per il pernottamento. Per la prima volta, anche, l’uomo è riuscito a fuggire nonostante i colpi di Beretta ricevuti e l’assassino è stato costretto a inseguirlo e a finirlo, nel buio della boscaglia, a colpi di coltello. Nadine è stata anche l’unica vittima donna, tra le tante che l’hanno preceduta, a essere mamma, la mamma di due figlie. Un copione così diverso da tutti gli altri casi, da sembrare quasi opera di un’altra mente e di altre mani lordate di sangue. Tanto è vero che nei giorni successivi, per la prima volta, un feticcio asportato a Nadine è stato spedito in una busta anonima al magistrato che si occupava delle indagini, Silvia Della Monica. Nel plico inviato alla pm è contenuto un lembo del seno della donna francese, il Mostro ha firmato la sua ultima impresa alzando il tiro verso gli inquirenti, come per sfidarli, prima di scomparire dalle cronache.

Esoterismo e satanismo

Lasciando dietro di sé una lunga teoria di sospetti, testimoni, deposizioni, perquisizioni, perfino campagne di sensibilizzazione come quella che fu fatta a Firenze e provincia con tanto di manifesti che invitavano le giovani coppie a non appartarsi in luoghi isolati. Per trovare il Mostro fu anche appositamente creata la SAM, una squadra di investigatori allestita appositamente per le indagini sugli omicidi delle coppiette, con compiti, ambiti e poteri dedicati sul modello della FBI statunitense, che in corso d’opera fu anche chiamata a dare una mano e collaborare con gli inquirenti fiorentini, per sfruttare l’esperienza e le conoscenze degli americani nella materia a loro molto familiare degli omicidi seriali. Ma il caso ancora aperto del Mostro di Firenze ha spesso superato i confini della criminologia e della casistica, assumendo toni e tinte di volta in volta esoterici o satanici, come una fosca cornice a quadri grondanti sangue. Nelle mutilazioni femminili c’è chi ha visto il chiaro riferimento a pratiche e riti da messa nera, per chi ritiene importanti certi segnali è certamente un dato di fatto che tutti i duplici delitti sono stati compiuti col favore delle tenebre e soprattutto in assenza di luna, fuori dalla linea dell’orizzonte e posizionata con le stesse coordinate (43 gradi nord e 11 gradi est, con lievi differenze di decimali) per tutti i sette casi verificatisi tra il 1974 e il 1985. C’è anche una strana e ripetuta cadenza temporale, tutti gli omicidi sono stati compiuti in estate, tra giugno e settembre, come se il Mostro avesse scelto quel periodo o magari non potesse muoversi negli altri: solo il caso di Travalle si è consumato in ottobre, tranciando la promessa di matrimonio che Stefano Baldi e Susanna Cambi si erano fatti per la primavera successiva, nel 1982.

Ombre umbre: lo strano caso del dottor Narducci

“Ma che ne sanno questi. Questa è una storia che non finirà mai”: a pronunciare queste parole rivolto alla moglie, il poliziotto Emanuele Petri, ucciso nel 2003 a Castiglione Fiorentino in uno scontro a fuoco coi brigatisti Mario Galesi e Nadia Desdemone Lioce, i vertici delle Nuove Brigate Rosse responsabili degli agguati ai giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi. In coda a questa storiaccia infinita, le lunghe ombre che dalla Toscana portano verso l’Umbria, con la figura controversa e tutt’ora inquietante del dottor Francesco Narducci, associato alle vicende del Mostro e alle frequentazioni che gravitavano intorno alle sue imprese. Figlio di Ugo Narducci, illustre primario di ginecologia all’ospedale di Foligno, laureato alla Sapienza “magna cum laude” (110) nel 1974, dieci anni più tardi diventa il più giovane professore associato d’Italia con la cattedra di Fisiopatologia Digestiva all’Università di Perugia, dove risiedeva. Il professor Ugo, scomparso nel 2017, faceva parte della Loggia Massonica di cui era Gran Maestro il dottor Mario Bellucci, medico della famiglia Spagnoli, la cui figlia Francesca è diventata poi moglie di Francesco Narducci. Le ombre lunghe che si sono proiettate sulle vicende del Mostro di Firenze dalla vicina Umbria hanno assunto il profilo non sempre trasparente della Massoneria che in quel breve segmento geografico, 140 chilometri e un’ora e mezza di strada tra Firenze e Perugia, ha forse in Italia la sua spina dorsale e la sua impronta più marcata. Fatto sta che il dottor Narducci è entrato spesso e volentieri nelle cronache e nelle chiacchiere sul Mostro, pur rimanendo sempre formalmente fuori dalle carte giudiziarie e dalle inchieste che si sono susseguite. L’ultima, quella che all’alba degli anni 2000 ha ridato vigore alla caccia al Mostro sotto la guida di Michele Giuttari e del pm Giuliano Mignini, ha appunto di nuovo incontrato il nome di Narducci, associato al poliziotto premiato con la medaglia d’oro al valore civile.

Un cadavere doppio nel Lago Trasimeno

Uno dei manifesti, scritti in varie lingue, per invitare i ragazzi a fare attenzione negli anni in cui era attivo il Mostro di Firenze

Un pescatore del lago Trasimeno, dove il 13 ottobre 1985 è stato ripescato il cadavere senza vita del dottor Narducci, scomparso cinque giorni prima, ha raccontato a Mignini una confidenza ricevuta proprio da Emanuele Petri, che all’epoca dei fatti indagava su Narducci dopo che nell’abitazione fiorentina del medico, così hanno riferito, erano stati trovati feticci femminili riconducibili a quelli asportati dal Mostro alle sue vittime. Petri ha riferito a quel pescatore che due giorni prima di sparire, Narducci era in sella ad un moto nei pressi del Trasimeno ed è sfuggito all’inseguimento messo in atto dallo stesso poliziotto, all’epoca agente della Stradale. Fatto sta che Narducci fin da piccolo accompagnava il padre a caccia e ha maturato probabilmente fin da giovane la passione per le armi da fuoco. Si era iscritto al poligono di tiro di Umbertide e si allenava con una Beretta semiautomatica, pare proprio con la calibro 22 Long Rifle, che riferiscono custodisse nel vano portaoggetti della sua auto. Le circostanze del ritrovamento del suo corpo presso il pontile Sant’Arcangelo, sul lago di Trasimeno, dopo la misteriosa sparizione di pochi giorni prima sono cosi descritte dal magistrato Mignini: “Non è stata fatta nessuna autopsia sul corpo che è stato restituito ai familiari prima che fosse firmato il nulla osta autorizzativo, non è stato condotto all’obitorio e non sono state scattate foto alla salma. Non era presente nessun medico legale e sono stati prodotti due certificati di morte, uno dei quali con uno sbianchettamento che porta a pensare ad un falso”. Tutte le operazioni di recupero e riconoscimento, comprese quelle medico- legali e compresa la predisposizione di un robusto cordone di polizia che impediva a chiunque di avvicinarsi, furono gestite dall’allora questore di Perugia, dottor Francesco Tria, senza che ne avesse nessuna facoltà o potere, ricorda Mignini. Nel luglio 2008, l’ex questore fu accusato di associazione per delinquere insieme ad Ugo Narducci e altri dalla procura perugina per vilipendio, distruzione e uso illegittimo di cadavere. La Cassazione nel 2013 li ha poi prosciolti dalle accuse per il “doppio cadavere”. Ma Giuliano Mignini conferma: “L’uomo ripescato nelle acque del lago era alto 160 centimetri, Narducci aveva una sagoma di 186 centimetri: non era certamente il medico, quel cadavere”. Il dottor Narducci, dal cui album di famiglia è spuntata un’emblematica foto nella quale scherzosamente mima l’accoltellamento della sorella, scompare nell’ottobre del 1985, un mese esatto dopo il massacro degli Scopeti che chiude vent’anni di agghiaccianti imprese dell’assassino dal volto tratteggiato in diversi identikit: l’ultima strana coincidenza nella storia infinita del Mostro di Firenze.

[di Salvatore Maria Righi]

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