mercoledì 14 Agosto 2024

Ormai anche gli USA lo ammettono: Google è un monopolio

Google è un monopolio. Si tratta di un’affermazione lapalissiana, soprattutto se si considera che nel gergo comune il verbo “googleare” è sinonimo stesso di “cercare sul web”, tuttavia questo assunto non è più una mera consapevolezza di pancia, ora a sostenerlo è lo stesso sistema giuridico statunitense. Lunedì 5 agosto, il giudice Amit P. Mehta ha prodotto un documento di 277 pagine in cui definisce come la Big Tech abbia illegalmente approfittato della sua posizione dominante per stroncare ogni forma di concorrenza all’interno del settore dei motori di ricerca.

La sentenza è frutto di quasi quattro anni di indagini e dibattiti, nonché di dieci settimane di processo. Google era stata citata in giudizio nel 2020 direttamente dal Dipartimento di Giustizia statunitense, il quale l’ha accusata di aver ottenuto il controllo del 90% del mercato online anche facendo leva attraverso accordi illegittimi con aziende produttrici di dispositivi elettronici quali smartphone e tablet. Realtà come Apple e Samsung, rivelano le carte, hanno ricevuto miliardi di dollari per far sì che i propri apparecchi e i propri browser adoperassero Google come motore di ricerca di riferimento, disincentivando ogni opzione alternativa. Nello specifico, il tribunale ritiene che nel solo 2021, la Big Tech abbia impiegato 26,3 miliardi di dollari di quota di fatturato al fine di sostenere questo genere di spese. Secondo il The New York Times, 18 di questi miliardi sarebbero finiti direttamente nelle tasche di Apple, così da conquistare l’influente settore degli iPhone.

Godendo della sua situazione privilegiata, Google avrebbe inoltre manipolato il mercato delle inserzioni, gonfiando i prezzi delle pubblicità ben oltre il valore che invece avrebbero potuto e dovuto avere in un contesto di libero Mercato. Considerando che la il 77,8% dei ricavi della Big Tech sono legati al settore pubblicitario, l’inflazione esercitata sul tariffario ha consolidato un circolo vizioso per cui questa manipolazione del Mercato generava ritorni che poi venivano parzialmente impiegati per cementare ulteriormente la presa della Big Tech sull’economia del web. In breve, il giudice Mehta ha dunque decretato che «Google è monopolista e ha agito per mantenere il suo monopolio».

La decisione assunta dal sistema giudiziario USA rieccheggia opinioni giuridiche che erano già state espresse in passato dall’antitrust dell’Unione Europea, tuttavia questa novità eleva comunque il dibattito a un livello mai raggiunto in precedenza. Tra interessi finanziari globalizzati e l’alone di intoccabilità che protegge da sempre i giganti industriali statunitensi, sanzioni e leggi assunte da Paesi terzi non sono mai state in grado di affrontare significativamente il peccato originale delle Big Tech, la nuclearizzazione del potere. Tuttavia, ora il campo di battaglia si è spostato direttamente sul suolo USA e la pressione sulle imprese è dunque notevolmente aumentata.

Le conseguenze, in tutta probabilità, non saranno però immediate. Il giudice deve ancora definire le penali da infliggere alle parti coinvolte e Google ha già annunciato che farà ricorso. Si prospetta un iter burocratico potenzialmente ancora molto lungo e ambiguo, tuttavia questa rivoluzione andrà sicuramente a impattare sulle azioni intraprese dagli Stati Uniti nei confronti delle Big Tech, le quali si stanno intensificando per numero e portata. L’ultima, in ordine di tempo, è quella che sembrerebbe in procinto di colpire Nvidia, leader della produzione di processori grafici utilizzati per addestrare le intelligenze artificiali.

Dal canto suo, Google sostiene di non aver colpa, ma di essere penalizzata solamente sulla base delle sue virtù intrinseche. «Google sta vincendo [sul Mercato] perché è migliore», ha fatto notare lapidariamente l’avvocato difensore John Schmidtlein durante la sua arringa conclusiva. Kent Walker, Presidente di Google per gli affari globali, ha invece lamentato che «la decisione riconosce che Google sta offrendo il miglior motore di ricerca, ma conclude che non dovrebbe esserci permesso di rendere il nostro servizio facilmente accessibile». 

[di Walter Ferri]

 

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni.

Ti è piaciuto questo articolo? Pensi sia importante che notizie e informazioni come queste vengano pubblicate e lette da sempre più persone? Sostieni il nostro lavoro con una donazione. Grazie.

Articoli correlati

5 Commenti

  1. Suggerisco di dare uno sguardo a un motore di ricerca rispettoso della privacy e senza pubblicità: Kagi. Lo utilizzo, anche professionalmente, da alcuni mesi con l’abbonamento starter e trovo che funzioni davvero bene, permettendo oltretutto di risparmiare molto tempo perché i risultati sono allineati con ciò che sto cercando e non sono condizionati dalle pubblicità o dai siti che usano cookie traccianti. Andate a vedere kagi.com oppure iniziate a leggere gli articoli: The age of pagerank is over (https://blog.kagi.com/age-pagerank-over) e Why pay for searches (https://help.kagi.com/kagi/why-kagi/why-pay-for-search.html).

Iscriviti a The Week
la nostra newsletter settimanale gratuita

Guarda una versione di "The Week" prima di iscriverti e valuta se può interessarti ricevere settimanalmente la nostra newsletter

Ultimi

Articoli nella stessa categoria