mercoledì 14 Agosto 2024

Birmania, un rapporto ONU denuncia l’aggravarsi della guerra civile

Stanno crescendo in tutto il Paese ad un ritmo allarmante le violenze e i brutali crimini di guerra commessi contro i civili dalla giunta militare nell’ambito della guerra civile che attanaglia la Birmania (denominata Myanmar nel 1988 dalla dittatura militare) dal 2021, in seguito alla presa del potere da parte del Tatmadaw (le forze armate birmane). A riferirlo sono le Nazioni Unite in base alle informazioni raccolte e analizzate dal Meccanismo investigativo indipendente per il Myanmar (Meccanismo) nel suo rapporto annuale riferito al periodo dal 1° luglio 2023 al 30 giugno 2024, durante il quale gli scontri tra la giunta e la resistenza armata dei civili sono aumentati. Secondo il Meccanismo, durante questo periodo, i crimini di guerra sono diventati più intensi e violenti e si sono tradotti sia in attacchi a edifici civili sia in rapimenti, torture e abusi di ogni tipo contro la popolazione. «Abbiamo raccolto prove sostanziali che mostrano livelli orribili di brutalità e disumanità in tutto il Myanmar. Molti crimini sono stati commessi con l’intento di punire e indurre il terrore nella popolazione civile», ha affermato Nicholas Koumjian, responsabile del Meccanismo. I contenuti del rapporto sono basati su oltre 900 fonti, tra cui più di 400 testimonianze oculari e prove quali video, fotografie, documenti, mappe, immagini geospaziali, post sui social media e prove forensi. Il documento, inoltre, contiene anche i risultati delle indagini inerenti alle violenze commesse prima del golpe del 2021, in particolare quelle ai danni dei Rohingya, risalenti al 2012, e i crimini associati alle operazioni di sgombero condotte nel Paese dalle forze di sicurezza nel 2016 e nel 2017. I Rohingya sono una minoranza etnica di religione islamica residente nella parte settentrionale della Birmania, nello stato di Rakhine, non riconosciuta però dallo Stato birmano. Questo materiale è stato condiviso dal Meccanismo con le autorità che stanno lavorando su casi in corso riguardanti la minoranza etnica dei Rohingya presso la Corte penale internazionale, la Corte internazionale di giustizia e in Argentina.

Nello specifico, il Meccanismo ha raccolto prove riguardanti attacchi contro scuole, edifici religiosi e ospedali dove non c’era alcun obiettivo militare apparente, ma anche circa “mutilazioni fisiche contro persone detenute durante i conflitti armati, tra cui decapitazioni ed esposizioni pubbliche di corpi sfigurati e mutilati sessualmente”, come si legge sul sito delle Nazioni Unite. Il gruppo investigativo per i crimini di guerra nel Myanmar sta infatti lavorando specificamente sulla detenzione illegale di quelli che sono ritenuti gli oppositori politici della giunta militare. Migliaia di loro sono stati torturati e uccisi durante la detenzione. Le prove raccolte dal Meccanismo attestano torture sistematiche, tra cui gravi abusi fisici e mentali come percosse, scosse elettriche, strangolamenti e privazione del sonno, ma anche stupri di gruppo, bruciature di parti intime del corpo e altri crimini di natura sessuale, commessi sia su uomini che su donne e su vittime di tutte le età, compresi i bambini. Nel rapporto si legge che “la tortura fisica e mentale era spesso usata per indurre i detenuti a fornire informazioni o presunte confessioni o per fargli fare dichiarazioni che non gli era nemmeno permesso di leggere. Queste dichiarazioni venivano poi fatte valere in successivi procedimenti giudiziari per condannare i detenuti”. Nel rapporto viene anche specificato che “attualmente non ci sono procedimenti o indagini nazionali o internazionali relativi ai crimini commessi a partire dal colpo di Stato militare” nonostante siano “state presentate diverse denunce sulla base della giurisdizione universale, anche in Germania, nelle Filippine e in Turchia”. Il documento sottolinea come nel settembre del 2023 “il Procuratore Federale della Germania ha rifiutato di investigare su una denuncia riguardante genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Myanmar presentata da un gruppo per i diritti umani”.

La guerra civile in Birmania è scoppiata nel 2021, quando i militari hanno contestato i risultati delle elezioni del 2020 che vedevano in testa il partito della politica Aung San Suu Kyi, la Lega Nazionale Democratica (LND), con 258 seggi, mentre il Partito dell’Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo, vicino all’esercito, aveva ottenuto solo poche decine di seggi. Successivamente, senza procedere a verifiche sulla regolarità delle elezioni, i militari hanno proceduto all’arresto di importanti esponenti politici, tra cui il presidente Win Myint e la stessa Aung San Suu Kyi, allora Consigliere di Stato, oltre a diversi parlamentari e membri della LND. Sono così cominciate proteste di massa duramente represse dall’esercito, che hanno portato alla dichiarazione della legge marziale in buona parte del Paese, ma anche alla nascita di movimenti di resistenza armati – eserciti etnici (Karen, Karenni, Kachin, Chin, Shan e Arakan) – che si sono uniti al People’s Defence Force (PDF, Forza di Difesa del Popolo), braccio armato del National Unity Government (Governo di Unità Nazionale, NUG), il governo clandestino che si è costituito dopo il golpe. La situazione è precipitata ulteriormente nel 2023, quando la resistenza ha lanciato la sfida più grande al governo golpista con l’operazione 1027. Da allora, come documentato dal rapporto ONU, le violenze si sono intensificate e, anche a causa della sostanziale indifferenza della comunità internazionale, non si riescono a trovare soluzioni per porre fine ad un conflitto sostanzialmente dimenticato, ma estremamente cruento e foriero di instabilità regionale.

[di Giorgia Audiello]

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