mercoledì 21 Agosto 2024

La giustificazione morale di una rappresaglia infinita

Pochi giorni fa il Ministro israeliano per la Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, ha lanciato uno strano appello, chiedendo che gli aiuti umanitari diretti alla Striscia di Gaza vengano interrotti, «fino a quando tutti i nostri ostaggi non saranno tornati a casa». Successivamente nel corso di una conferenza stampa ha dichiarato che la morte dei civili palestinesi per fame è «giustificata e morale». Merita di essere letto per intero il suo intervento: «Non possiamo, nell’attuale realtĂ  globale, gestire una guerra. Nessuno ci permetterĂ  di far morire di fame due milioni di civili, anche se potrebbe essere giustificato e morale, finchĂ© non ci verranno restituiti gli ostaggi». Il ministro israeliano Ben-Gvir si è posto un obiettivo importante: la «vittoria totale» e l’occupazione perenne della Palestina.

Le sue dichiarazioni sono chiarissime: Israele non è disposto a negoziare e non è intenzionato a riconoscere l’esistenza dello Stato di Palestina, posizioni queste che non sorprendono nessuno, dato fin dal fatidico 7 ottobre Israele ha intrapreso una linea d’azione che ha come scopo la distruzione della Palestina in quanto entità autonoma e indipendente. Sarebbe superfluo ricordare la violenza, le aggressioni fisiche, le discriminazioni giuridiche, la limitazione dei movimenti, insomma un apartheid nella forma e nella sostanza, messo in atto nei confronti dei civili palestinesi e che ha avuto inizio ben prima del 7 ottobre, come ha denunciato più volte Amnesty International. La segregazione razziale a cui da anni sono stati sottoposti i palestinesi rivela la volontà da parte del governo di Israele di non voler coesistere con dei «vicini» che percepisce come indesiderati. 

Potremmo parlare all’infinito sul concetto di apartheid e sulla sua legittimazione; ben più interessante dal punto di vista etico è analizzare come e perché il ministro israeliano abbia potuto unire il concetto di «moralità» con la volontà di interrompere gli aiuti umanitari e di procurare deliberatamente la morte per fame di migliaia di civili palestinesi. Come può coesistere l’idea di agire in base a dei principi etici con lo sterminio di massa? Non si tratta di una questione secondaria o di una domanda squisitamente filosofica. La risposta a questa domanda, infatti, racchiude la legittimazione su cui poggia la politica di Israele. E di conseguenza la legittimazione dello stesso Occidente a tale politica.

Ma per rispondere bisogna tornare indietro nel tempo e riprendere in mano una vecchia tragedia greca: l’Antigone di Sofocle. L’Antigone è la tragedia più conosciuta del mondo antico. Oggi Antigone è diventata il simbolo di chi da solo e senza aiuti si oppone a leggi ingiuste; ma non è questo l’aspetto interessante. 

La tragedia ha inizio quando Creonte, Re di Tebe, ordina di lasciare insepolto il cadavere di Polinice. Eteocle e Polinice sono due fratelli che hanno combattuto l’uno contro l’altro. Eteocle è morto per difendere la sua patria, Polinice invece la sua patria l’ha tradita, così Creonte stabilisce che i due cadaveri non saranno trattati nello stesso modo. Eteocle sarà sepolto e onorato, il corpo di Polinice invece deve diventare cibo per i corvi. 

 «Proibito seppellirlo, e neppure piangerlo è concesso, perché sia abbandonato senza lacrima né tumulo, dolce tesoro per gli uccelli che già lo fissano pregustando il banchetto».

Per i greci non esisteva dolore o umiliazione più grande. In una delle scene più famose dell’Iliade Priamo s’inginocchia al cospetto di Achille implorandolo di restituirgli il cadavere di Ettore proprio perché essere privato degli onori funebri era qualcosa d’inconcepibile per la mentalità greca. Creonte non ci accontenta della disfatta e della morte di Polinice, arriva al punto di negargli la sepoltura nel segno di una rappresaglia che non conosce limiti e non ha limite. Ed è fermamene convinto di agire nel giusto. La sua giustificazione poggia su questo fondamento: Polinice ha peccato contro la patria, ha attaccato la sua stessa patria, dunque non è immorale la vendetta, non è immorale far scempio del suo cadavere.

In seguito all’azione di Hamas il governo israeliano ha iniziato un bombardamento senza precedenti contro la Palestina. Più di 8000 civili palestinesi sono morti, di cui 3.200 bambini. L’azione militare era stata preceduta dalle parole di Mark Regev, consigliere di Netanyahu: «Hamas ha commesso crimini contro l’umanità e sentirà la nostra ira, la vendetta inizia stanotte».

Israele ha sempre iscritto le proprie azioni nel segno dell’autodifesa, «sono stato attaccato, sono stato ferito, dunque ho il pieno diritto di vendicarmi». In questi ultimI mesi abbiamo assistito a una giustificazione etica alla rappresaglia, a una giustificazione della vendetta. Chi ha tentato di contestare l’azione politica israeliana è stato tacciato non solo di antisemitismo ma di negare allo stato d’Israele il diritto all’autodifesa. Emblematica la scelta adottata da Meta di oscurare i post pro Palestina. Eppure il numero impressionante delle vittime palestinesi, numero che supera di gran lunga il numero delle vittime israeliane, parla da solo. Ricalca il modello delle rappresaglie naziste: dieci italiani per un tedesco morto. La «vittoria totale» auspicata da Ministro israeliano Itamar Ben-Gvir, la «soluzione definita» la definì qualcun altro nella Germania degli 40, ha come scopo non la vittoria ma l’annientamento totale del proprio nemico.

La cultura della vendetta, sia quella messa in atto da Hamas contro i civili israeliani sia quella del governo israeliano, è frutto di un modello tribale che già ai tempi di Sofocle veniva percepito come arcaico. L’Antigone parla dello scontro tra la cultura della vendetta, della rappresaglia, incarnata da Creonte, e la cultura della pietas di cui Antigone si fa portavoce. Anche nell’Orestea di Eschilo assistiamo a una cosa simile. Dopo che Agamennone ha sacrificato la figlia Ifigenia per propiziarsi il volere degli dei, sua moglie Clitimnestra lo ammazza per vendicare la morte della figlia. A quel punto però Oreste, figlio di Agamennone, uccide la madre per vendicare la morte del padre e così via, in un ciclo infinito di morti e di uccisioni che ha fine soltanto con l’Istituzione dell’Areopago, il tribunale, che interrompe questo ciclo senza fine di violenza. Non è un caso che il conflitto israeliano-palestinese sia stato chiamato «il conflitto infinito». La vittoria totale auspicata dal ministro israeliano è un’utopia e getta le basi per contro-rappresaglie, per le guerre del futuro insomma, in una spirale di violenza infinita.

C’è un altro aspetto interessante nella tragedia di Sofocle che sembra parlare non della Grecia del V secolo a.C. ma di ciò che sta accadendo in Palestina. Antigone è anche la tragedia del confronto negato. Creonte è il difensore del nomos, la legge in greco, Antigone invece segue una legge diversa, è mossa dalla pietas, dal rispetto per leggi più antiche, leggi iscritte nel cuore degli uomini. Sia Creonte sia Antigone si fanno portatori di due posizioni inconciliabili. Sono inamovibili. La loro incapacità di comprendere il punto di vista dell’altro, di dialogare tra loro, innesca la tragedia. Dialogo, dal greco «dia» in mezzo, attraverso e «logos» pensiero, significa letteralmente che la ragione non sta mai solo da una parte, non è monopolio di questa o quella fazione. Senza dialogo la tragedia è certa. 

Emone mette in guardia Creonte, suo padre: «Non pensare che sia nel giusto solo il tuo carattere, solo ciò che dici, e nient’altro. Chi crede di essere il solo a capire, il solo a poter parlare, il solo a possedere un’anima retta, appena lo apri scopri che è vuoto». Creonte naturalmente non lo ascolta. Chi ha potere, decreta le leggi, afferma. Legittima la sua sete di vendetta grazie alla forza della legge che incarna. La risposta di Emone è profetica, profetizza le sciagure che si abbatteranno su Creonte, e credo sia profetica anche del futuro d’Israele, se proseguirà su questa strada: «Quale potere se tu regnassi da solo sopra un deserto!».

[di Guendalina Middei, in arte Professor X]

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