mercoledì 4 Settembre 2024

I sistemi di cattura di CO2 funzionano molto meno di quanto assicuravano le multinazionali

Al contrario da quanto previsto dalle proiezioni del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) – le quali prevedono la capacità di sequestro mondiale tra 1 e 30 gigatonnellate di anidride carbonica all’anno – le tecnologie attualmente in uso, la disponibilità di siti per lo stoccaggio e gli impegni presi dai governi per contrastare il fenomeno potrebbero rimuovere al massimo 16 gigatonnellate di CO2 all’anno, anche se «realisticamente» il limite sarà di 5 o 6 gigatonnellate. Lo stabilisce un nuovo studio condotto dall’Imperial College, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature, il quale tramite nuove analisi mostra che diverse stime sul tema «sono state altamente speculative». Samuel Krevor, coautore e ricercatore del Department of Earth Science and Engineering dell’Imperial, ha dichiarato: «Il nostro studio è il primo ad applicare modelli di crescita da settori affermati allo stoccaggio di CO2. Il nostro nuovo modello offre un approccio più realistico e pratico per prevedere la rapidità con cui lo stoccaggio del carbonio può essere ampliato, aiutandoci a stabilire obiettivi più raggiungibili».

La rimozione della anidride carbonica è una delle misure prese in considerazione per limitare il riscaldamento globale entro il 2050. Si tratta di un obiettivo che viene perseguito tramite una variegata tipologia di metodi accomunati dal fatto di riuscire a sequestrare la CO2 immessa nell’atmosfera e di inserirla in grandi pozzi sotterranei dai quali era stato estratto, per esempio, il gas naturale. Secondo le proiezioni del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), entro il 2050 sarebbe possibile estrarre dall’una alle 30 gigatonnellate di anidride carbonica all’anno ma ciò, secondo la nuova ricerca pubblicata su Nature, potrebbe essere frutto di sovrastime basate su modelli tutt’altro che impeccabili: lo studio ha scoperto che, entro il 2050, potremmo riuscire ad immagazzinarne sottoterra al massimo 16, anche se il limite realistico si aggira tra le 5 e le 6 gigatonnellate. Tale divario sarebbe dato anche dal fatto che «non ci sono piani esistenti da parte dei governi o accordi internazionali per supportare uno sforzo su così vasta scala».

I ricercatori hanno spiegato che le imprecisioni dell’IPCC deriverebbero dalla decisione di includere i risultati dei modelli di valutazione integrata (IAM) – strumenti che combinano diverse fonti di informazione per prevedere come i metodi di stoccaggio del carbonio possono avere un impatto sul nostro clima e sulla nostra economia – che però «spesso sovrastimano la quantità di CO2 che può essere immagazzinata sottoterra». Le nuove analisi, quindi, suggeriscono che le previsioni dei rapporti dell’IPCC, in particolare per determinati paesi asiatici dove lo sviluppo attuale è basso, presupponevano «tassi di distribuzione irrealistici», il che significa che le proiezioni esistenti sono «improbabili e inaffidabili». Tuttavia, come sottolineato da Samuel Krevor, coautore e ricercatore del Department of Earth Science and Engineering dell’Imperial, è importante «tenere a mente che cinque gigatonnellate di carbonio immesse nel sottosuolo rappresentano comunque un contributo importante alla mitigazione del cambiamento climatico. I nostri modelli forniscono gli strumenti per aggiornare le proiezioni attuali con obiettivi realistici su come e dove dovrebbe essere sviluppato lo stoccaggio del carbonio nei prossimi decenni».

Si tratta quindi di una ricerca che dovrebbe suonare da campanello d’allarme a tutte quelle realtà ed aziende che promettono da tempo la riduzione e la cattura delle emissioni senza specificare come, come nel caso della multinazionale petrolifera italiana ENI. L’azienda, infatti, ha ribadito l’intenzione di ridurre le emissioni del 5% entro il 2030, dell’80% entro il 2040 e raggiungere l’obiettivo “emissioni zero” entro il 2050, ma il tutto senza specificare come mettere in atto tale strategia e, di certo, la ricerca appena pubblicata su Nature non strizza l’occhio a tale impegno. Inoltre, lo studio sembra destinato fornire maggiore solidità alla Green Claims Directive, la proposta di legge che comprende una serie di norme che riguardano il greenwashing a tutela dei consumatori e basata su tre principi fondamentali: fondatezza, comunicazione e verifica. È quindi lecito pensare, in conclusione, che se persino le stime dell’IPCC potrebbero essere inaccurate, allora anche quelle fornite dalle aziende per rassicurare i propri clienti, forse, meriterebbero verifiche basate su evidenze più rigorose e tangibili al fine di minimizzare il rischio di inganno a danno dei consumatori.

[di Roberto Demaio]

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