Nell’immaginario comune gli insetti sono considerati forme di vita prive di qualunque sensibilità. La morte di un insetto difficilmente ci turba, anche l’uomo più sensibile non ha alcuna esitazione nello schiacciare uno scarafaggio, eppure le ultime ricerche scientifiche hanno dimostrato come anche queste forme di vita elementari sono senzienti. Le api, per esempio, sarebbero in grado di contare, le mosche sono in grado di percepire il tempo e il suo trascorrere, le formiche, instancabili e tenaci, soccorrono i loro compagni in difficoltà. Lars Chittka, professore di ecologia comportamentale, ha dimostrato come le api conoscano il senso del gioco e del piacere e sperimentino una sensazione simile alla gioia.
«Abbiamo collegato una colonia di bombi a un’area dotata di palline mobili da un lato e a un’area di palline immobili dall’altro. Nel mezzo c’era un percorso libero che conduceva a una zona di alimentazione contenente soluzione zuccherina e polline. Ebbene, le api sono tornate molte volte e sono rimaste per prolungati periodi di tempo nell’area di gioco dove potevano fare rotolare le palline mobili, anche se nelle vicinanze veniva fornito cibo in abbondanza. Sembrava, insomma, esserci qualcosa di intrinsecamente piacevole nell’attività stessa».
Se le api conoscono una sensazione assimilabile al piacere, allo stesso modo percepiscono il dolore. Gli insetti provano sofferenza, possiedono meccanismi di regolazione della nocicezione che sono ciò che regola la percezione del dolore nel sistema nervoso umano. Un team di ricercatori australiani dell’Università di Sidney ha studiato la percezione del dolore cronico in una delle forme di vita più elementari di tutte: il moscerino della frutta. Ebbene dopo aver danneggiato il nervo di una gamba di un moscerino della frutta, l’animale ha sviluppato una ipersensibilità in quel punto, come accade nei pazienti affetti da dolore cronico. Se organismi semplici come gli insetti percepiscono la paura e il dolore, forme di vita più complesse come i volatili e i mammiferi hanno un complesso sistema emozionale assimilabile in tutto e per tutto a quello umano. I cani sanno cos’è la gioia e l’attaccamento, provano affetto, paura, rabbia, nervosismo, sono in grado di sviluppare un legame emotivo persistente e duraturo con gli esseri umani. Chiunque abbia vissuto con un cane o abbia avuto un animale domestico ne è consapevole. Eppure il rapporto simbiotico sviluppato tra l’uomo e il cane o il gatto (o il cavallo) non si è mai esteso ad altre forme di vita animale.
Fin dagli albori della civiltà l’uomo non ha potuto non domandarsi se fosse etico uccidere e macellare esseri senzienti. Gli animali soffrono? Provano dolore? Sono in grado di pensare? Provano emozioni assimilabili a quelle umane? Queste non sono semplici domande filosofiche e non investono soltanto il nostro rapporto con gli animali, ma coinvolgono questioni umane come il senso che attribuiamo alla giustizia e alla stessa vita. Il filosofo greco Pitagora, divenuto celebre per il suo vegetarianismo ante litteram, fu uno dei primi a esprimersi contro la violenza sugli animali. L’esempio di Pitagora fu imitato da Porfirio, da Teofrasto, da Empedocle. Quest’ultimo disse: «È una grande vergogna spargere il sangue e divorare le belle membra di animali ai quali è stata violentemente tolta la vita».
Democrito invece era attratto dall’intelligenza, dall’ingegnosità di alcune specie: i ragni tessitori, i picchi, i castori che costruiscono vere e proprie dighe, manifestando una capacità di adattamento, di problem solving la definiremmo oggi, che desta meraviglia e stupore. Lo storico greco Plutarco invece ne fece una questione di sensibilità: «Tu chiedi in base a quale ragionamento Pitagora si sia astenuto dal mangiare carne: io invece domando, pieno di meraviglia, con quale disposizione, animo o pensiero il primo uomo abbia toccato con la bocca il sangue e sfiorato con le labbra la carne di un animale ucciso, imbandendo le tavole con cadaveri e simulacri senza vita; e abbia altresì chiamato “cibi prelibati” quelle membra che solo poco prima muggivano, gridavano e si muovevano e vedevano. Come poté la vista sopportare l’uccisione di esseri che venivano sgozzati, scorticati e fatti a pezzi?».
Dello stesso pensiero era Seneca che sostenne che esiste un profondo legame tra l’uccidere gli animali e il massacrare i propri simili in guerra. Se l’uomo considera naturale la soppressione di una vita, lo spargimento di sangue prima o poi considererà naturale e inevitabile anche la soppressione di altre forme di vita, come quella umana. Circa 1800 anni dopo lo scrittore russo Lev Tolstoj fu dello stesso avviso: «Fino a quando ci saranno i macelli, ci saranno anche i campi di battaglia. La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali.» Dallo stato delle sue carceri, dei suoi ospizi, dei suoi ricoveri. Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, pur ritenendo gli animali privi di facoltà razionali, li credeva capaci di emozioni profonde e si domandava: «Chi è crudele nei confronti degli animali come può essere una buona persona?»
Gli esempi sarebbero infiniti e non sarebbe neanche auspicabile riportarli tutti, da Kant a Montaigne passando per Rousseau, di epoca in epoca, di stagione storica in stagione storica l’uomo si è sempre domandato con un senso di tristezza e di disagio perché venga inflitta, in modo deliberato o inconsapevole, per via della caccia, della macellazione o di altre pratiche simili, una grande sofferenza a creature dotate di sensibilità e di sentimenti anche complessi.
Fu tuttavia il filosofo Jeremy Bentham a porre nella percezione della gioia e della sofferenza la qualità che accumuna i membri di ogni specie: «Che altro dovrebbe tracciare la linea invalicabile? La facoltà di ragionare o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone animali più razionali, e più comunicativi, di un bambino di un giorno, o di una settimana, o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? Il problema non è “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?”».
Se dovessimo sintetizzare gli interrogativi etici dell’animalismo possiamo rintracciare in questa linea di pensiero tre grandi domande: gli animali sono intelligenti? Gli animali provano emozioni e sentimenti? Gli animali sentono dolore? A sua volta queste tre grandi domande ne racchiudono altre. Ad esempio, esiste una definizione univoca di intelligenza? Cos’è il dolore? Cos’è il piacere? Tutte queste domande alla fine però si riducono a un’unica domanda: cos’è la vita? Quale vita è degna di essere vissuta? Possiamo noi giudicare chi è meritevole di vivere? Lo sviluppo del linguaggio e di facoltà razionali complesse non sono più un discrimine che rende immeritevoli della vita. Chi è affetto da handicap neurologici o da altre alterazioni delle facoltà intellettive ha tutto il diritto di vivere come qualsiasi altro suo simile normodotato. Sorge spontanea la domanda: perché questo stesso diritto non viene riconosciuto alle altre creature senzienti di questo pianeta?
Se in passato l’uccisione degli animali per nutrirsi della loro carne era una questione di sopravvivenza, legata alla scarsità di cibo, lo sviluppo industriale e tecnologico ha reso l’uomo occidentale libero da qualsiasi dipendenza dalla carne animale. Sono innumerevoli le fonti alternative di proteine necessarie per il nostro sostentamento. Nell’utilizzo degli animali come fonte di cibo non vi è una motivazione di natura pratica. E non vi è neanche una mancanza di etica. Pochissimi consumatori di carne sarebbero in grado di uccidere un animale a sangue freddo, di macellare una mucca, di sgozzare un maiale, di decapitare un cavallo, eppure la maggior parte della popolazione consuma tranquillamente carne, si ciba di carne animale. Tutti sappiamo cosa accade nei macelli, conosciamo la violenza praticata in questi luoghi simili a un inferno sulla terra, ma il consumo di carne animale è rimasto quasi inalterato.
E c’è in effetti un motivo molto semplice dietro: nella carne che acquistiamo comodamente impacchettata, tagliata o addirittura già cucinata, priva insomma di qualunque legame con la vita, non identifichiamo un essere senziente. A livello razionale siamo consapevoli che quella carne apparteneva a qualcuno, che una vita è stata soppressa, ma quest’informazione è un dato astratto che di rado ci sfiora la mente. La distrazione, la forza dell’abitudine, le tradizioni culinarie, la disponibilità della carne animale possono di più sull’etica e sulla sensibilità. Da qualunque angolazione vogliamo esaminare il problema, non ne usciamo bene, ma esserne consapevoli potrebbe almeno essere un inizio. Il rifiuto della violenza sugli animali, qualunque forma di violenza praticata contro esseri senzienti, è la conditio sine qua non per estirpare tutte le altre forme di violenza diffuse nel nostro pianeta.
[di Guendalina Middei, in arte Professor X]
Credo che la cosa vada affrontata in modo razionale quindi mangiando la carne oggi, ma continuando la ricerca per la produzione di carne sintetica e appena potremo passare a questa in sicurezza, eliminare l’uso della carne naturale.
Articolo ben fatto,l autore si dimentica ,però,di una pratica ancor più aberrante,cioè l aborto di esseri umani.Praticato,non per cibarsi,ma per puri interessi ,esistenziali.Quindi ancora più grave..
Il consumo di carne animale è parte della catena alimentare, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. La macellazione industriale è una cosa orribile e se la maggior parte dei consumatori vi assistesse anche solo una volta probabilmente cambierebbe dieta. Quindi il problema è come ci procuriamo la carne e non il fatto che ce ne cibiamo (da migliaia di anni), ma siamo centinaia di milioni di individui che vivono in centinaia di migliaia di città in cui non si può cacciare per il sostentamento e solo i capi necessari.
Mi permetto di dubitare della conclusione secondo la quale se l’uomo smettesse di uccidere animali allora non ucciderebbe nemmeno i suoi simili. Non sono le abitudini alimentari a scatenare la violenza della guerra o degli omicidi o di altre azioni violente tra umani.
Riguardo il fatto che chi non mangia carne per non uccidere animali fomenterebbe comunque le guerre non significa che le guerre non ci sarebbero piu’, ma che chi si pone tale problema etico e vuole affrontarlo ha spesso una sensibilita’ interiore che lo porta ad essere meno incline alla violenza fisica: e’ un’attitudine. E’ poi vero che le catene alimentari implicano anche il consumo di carne, ma la natura non e’ etica, ma solo funzionale: come lo sono lo stupro di massa in tempo di guerra (un suo teorico, e non l’unico nella storia del mondo, era il premier serbo durante l’ultima guerra locale: uno psichiatra che sosteneva la sua utilita’ nell’imbastardire la stirpe nemica indebolendone nel futuro il nazionalismo), il furto, la rapina, il successo politico senza scrupoli…tutte attivita’ dedite a premiare il piu’ furbo, il piu’ coraggioso, il piu’ forte e prevaricatore affinche’ emerga sulla massa e come individuo di successo abbia la massima capacita’ di trasmettere i propri geni (le donne sono attirate dall’uomo di potere…). Allo stesso modo eliminare col gas gli esseri informi che non devono riprodursi per non perpetrare gli errori della natura ha un suo senso…Non capitemi male: sto solo portando alle estreme conseguenze (anche in modo um po’ caricaturale, lo ammetto) il bisogno di carnivorismo umano… L’etica, ma so che non va oggi di moda, e’ ben altra cosa. Ognuno fa le proprie scelte, ma sarebbe bene che ne abbia piena coscienza e poi scelga “liberamente”: in tal caso erano meno ipocriti nostri bisnonni che avevano il coraggio di sgozzarsi da soli l’animale che avrebbero poi mangiato. Sarebbe buona cosa portare i ragazzi a visitare un macello, e poi chiedere loro di farsi una libera opinione, senza filtri e ipocrisie…
Anche i vegetali sono costituiti da cellule viventi e trasmettono messaggi tramite feromoni e contatto diretto tra le radici e molto probabilmente hanno una capacità sensitiva. Quindi a rigor di logica non si dovrebbero consumare nemmeno vegetali. Poiché è noto che l’ ozio, oltre che padre dei vizi, è anche padre della filosofia, i sedicenti pensatori, immagino a stomaco pieno, attraverso la speculazione razionale si sono posti domande importanti ma spesso illogiche. Nessun popolo primitivo si chiede se è eticamente sostenibile mangiare un pipistrello o piuttosto una radice di topinambur. Nessun carnivoro (senziente) si chiede se è eticamente sostenibile aggredire un erbivoro (senziente pure lui) e poi mangiarne unicamente le interiora lasciando il resto ad altre specie che ne trarranno ulteriore nutrimento. Da onnivoro senziente e pensante credo che sia fondamentale garantire la tutela di ogni essere vivente alimentandosi di quantità limitate ai nostri fabbisogni nutrizionali (nel mondo occidentale superiori fino al 50% del necessario), preferendo cibi che impattino meno sul “sacrificio” di animali e consapevoli che ogni boccone che ingeriamo è un “dono” di cui dovremmo essere grati. Non a caso, in tutte le culture arcaiche, prima del pasto c’era la preghiera di ringraziamento.
Credo che la violenza sia insita nella vita, in una molteplicità di forme diverse (e spesso insospettabili, o quantomeno non così riconoscibili).
L’articolo è comunque ben scritto e stimolante varie riflessioni, però: grazie.