Le dipendenze sono dure da sradicare. Quella della moda dall’uso della plastica, sotto forma di poliestere (sia vergine che riciclato) forse, lo è ancora di più. Un legame molto stretto che va avanti da quando questa fibra è stata scoperta agli inizi del ‘900 e che è in aumento anno dopo anno. Lo evidenzia Textile Exchange nel suo report annuale sui materiali, che illustra come la tendenza sia in crescita: il 57% del tessile complessivo prodotto è poliestere, confermando come questa sia ancora la fibra più utilizzata a livello globale. Un primato difficile da scavalcare e che, stando alle previsioni per i prossimi anni, potrebbe continuare ad aumentare. Un incremento dovuto sia all’eccesso produttivo del settore moda che al costo (economico, non certo ambientale) di questo materiale. Negli ultimi 40 anni, infatti, il prezzo del poliestere è passato da 10 dollari a 1 dollaro al kg! Nei paesi europei è più economico del petrolio e, a parte l’aggiunta dell’IVA, non viene tassato in altro modo (niente imposte indirette come su altri prodotti nocivi e tossici, come tabacco o alcool). Difficile farne a meno, soprattutto per un’industria ultimamente basata sulla creazione di prodotti di scarsa qualità, ottenuti riducendo al minimo i costi per favorire i margini e guadagni di pochi.
La beffa del riciclato (e delle fibre innovative)
Nel report si inseriscono anche le percentuali di poliestere riciclato, altra storia controversa che non ha ancora trovato la sua direzione realmente sostenibile. «A livello globale, la produzione di fibre di poliestere riciclate è aumentata da circa 8,6 milioni di tonnellate nel 2022 a circa 8,9 milioni di tonnellate nel 2023. Tuttavia, a causa dell’aumento della produzione di poliestere vergine, si è verificata una diminuzione della quota di mercato complessiva del poliestere riciclato da circa 13,6% della produzione globale di poliestere nel 2022 a circa 12,5% nel 2023». Riciclare il poliestere da fibra a fibra, in un’ottica completamente circolare, è ancora un miraggio (al momento rappresenta solo il 2%). Ed anche quando è presente in un capo del poliestere riciclato (ottenuto dal riciclo di bottiglie di plastica), lo vediamo sempre accompagnato da una percentuale di fibra vergine, perché la qualità del prodotto sarebbe intaccata e quindi è necessario mescolare entrambe le fibre. Se poi ci addentriamo nel mondo delle fibre di poliestere di origine biologica, la quota di mercato è talmente bassa da risultare irrilevante (0,01%); questo per questioni relative al prezzo, alla disponibilità e alla reale sostenibilità.
Uno spiraglio di luce potrebbe arrivare dai materiali “di nuova generazione”, ottenuti dagli scarti alimentari come bucce di arancia e banana, così come quelli bio-based. Ma, nonostante il rumore su collaborazioni e lanci, e nonostante gli investimenti in start-up focalizzate sullo sviluppo di queste nuove tecnologie (parliamo di 500 milioni di euro solo nel 2023), il settore non riesce a decollare. Il problema è sempre nel prezzo: la materia prima non è di per sé costosa, ma i processi per trasformarla in un prodotto funzionale e appetibile per il prodotto moda sì. L’ostacolo principale sta sempre lì: in quel gap economico che sta tra l’innovazione ed il profitto, dove se per realizzare qualcosa di buono bisogna rinunciare ad una parte degli incassi, meglio continuare con i vecchi e decisamente più economici materiali. E così, negli anni, tante imprese innovative hanno dovuto mettere in pausa le ricerche, chiudere gli impianti e dichiarare bancarotta, spesso abbandonate proprio da quelle aziende investitrici che hanno messo la faccia per ripulire la loro reputazione. Allo stato attuale sembra quasi impossibile liberarsi dalla pura plastica.
Come disintossicarsi?
A indicare una via possibile un altro report di Textile Exchange The Future of Synthetics (il futuro dei sintetici), nel quale si delineano alcuni passaggi necessari affinché la moda si liberi dai materiali a base di petrolio e suoi derivati. Il primo passo è quello di fare a meno di poliestere vergine, obiettivo auspicabile entro il 2030; contemporaneamente, per entrare in un’ottica circolare, bisognerebbe rinunciare ad utilizzare le bottiglie di plastica PET per realizzare fibre di poliestere riciclato, lasciano il packaging al settore alimentare e focalizzandosi sugli scarti dell’industria della moda.
In questo consiste il secondo step: incentivare e sviluppare rapidamente le tecnologie per il riciclo dal tessile-al-tessile, usando tutti quegli scarti pre e post consumo generati dall’industria stessa e disponibili, a causa della sovrapproduzione, in quantità enormi. Qui, nonostante si facciano quotidianamente piccoli avanzamenti, mancano ancora infrastrutture di smistamento, l’accesso a materie prime di rifiuti tessili di alta qualità e, ovviamente, i finanziamenti per costruire strutture su larga scala e una mancanza di partnership con i fornitori. Problematiche che possono essere affrontate e risolte solo in sinergia e collaborazione tra fornitori e marchi, che dovranno rendersi disponibili a pagare di più per questo tipo di materiali. Il tutto in un’ottica di riduzione dei volumi (che se la quantità non cala, i problemi cambiano nome ma rimangono gli stessi).
Ultimo passaggio è quello di continuare ad investire in materiali di nuova generazione, con le stesse proprietà dei materiali sintetici, ma derivati da altri materiali vergini (come lo sviluppo dei biosintetici e la cattura del carbonio) capaci di generare un impatto ambientale decisamente minore. Le opportunità per disintossicarsi dai combustibili fossili ci sono. Rimane da vedere se c’è anche il primo ingrediente fondamentale per disintossicarsi da qualsiasi dipendenza: la volontà.
[di Marina Savarese]