Achmad sorride, gli occhi neri, le rughe profonde. Parla un inglese elementare, mentre si trascina dietro sacchi di plastica, bottiglioni d’acqua, una colazione che assomiglia più ad un pranzo. Il suo campo di ulivi è davanti a un settlement di coloni, uno dei tanti insediamenti israeliani illegali per la legge internazionale, ma che da decenni, con l’aiuto di Tel Aviv, provano a colonizzare la Cisgiordania. «Cinque giorni fa sono venuto per pulire il terreno, ma non sono riuscito. I coloni mi hanno sparato addosso» dice. Sulla collina davanti a noi si erge Einav, l’insediamento israeliano costruito sui 470 dunams (circa 47 ettari) confiscati al villaggio palestinese di Ramin e sui 20 rubati a Kafr al-Labad. Una rete metallica nella vallata divide la strada militare dai campi di ulivi palestinesi. «Io ho piantato questi alberi 45 anni fa. Là, non c’era nessuno» racconta, indicando le case. Ormai sono tre gli agglomerati di abitazioni israeliane, moltiplicate nei pochi decenni di invasione. La prima costruzione risale al 1981, ma l’insediamento vero e proprio è nato trent’anni fa. «E continuano ad allargarsi».
L’annientamento di un intero sistema di sussistenza
Un candelotto di lacrimogeni mezzo sepolto è il segno di uno dei tanti momenti di repressione da parte dei militari che pattugliano la zona. «Mia figlia non tornava qui da 12 anni. Aveva paura, e io avevo paura per lei». Jasmine ha 21 anni, si è laureata da poco all’università. Occhiali, un leggero velo nero le copre i capelli. «Sono pericolosi, mi fanno paura» ammette. «Guarda: quelli li hanno bruciati loro». Poco distante da noi, una distesa di alberi carbonizzati arriva alle reti. «Quelli sono della nostra vicina, ma anche a noi ne hanno bruciati più di cinquanta poco più in là. Tutti qualche mese fa».
Gli attacchi dei coloni non sono una novità, ma a partire dal 7 ottobre gli incendi e la distruzione di ulivi si stanno moltiplicando. In tutta la Cisgiordania, secondo il Wall and Settlement Resistance Commission, dall’inizio dell’anno di raccolta fino al 29 ottobre ci sono stati 239 attacchi contro i raccoglitori di olive. Assalti con pietre e bastoni, minacce, spari, incendi e distruzione degli uliveti, furti del raccolto e violenze di vario tipo sono all’ordine del giorno. In almeno 109 casi, ai palestinesi è stato impedito l’accesso alle proprie terre da parte dei coloni o dei militari.
Una donna di 59 anni, Hanan Abu Salama è stata uccisa nel villaggio di Faqqu’a, nel nordest di Jenin, da un attacco dei soldati israeliani mentre raccoglieva le olive. Sono oltre 50 le persone ferite nel mese e mezzo di raccolta. Questi sono solo i casi certificati, mentre gli incendi causati dai coloni hanno distrutto migliaia di alberi quest’anno. Solo nel villaggio di Qaryut, il 6 novembre, i contadini palestinesi hanno trovato più di 500 antichi ulivi tagliati. Erano due anni che gli israeliani impedivano loro con la violenza l’accesso alle loro terre. All’inizio di novembre, i contadini avevano ottenuto una coordination, un accordo di due giorni con le forze di occupazione per poter raccogliere le olive. Alla mattina, la scoperta: la maggior parte degli alberi era stata tagliata. Gli stessi contadini sono anche stati aggrediti dai militari e dalla settlers security, che ha “sequestrato” loro le attrezzature per la raccolta delle olive.
«Perchè fanno questo? Questa è la nostra vita» dice Achmad, arrabbiato. Lui ha lavorato 49 anni nei territori che il resto del mondo chiama Israele. Faceva l’elettricista. «Dal 7 ottobre non posso più entrare. Parlo e leggo anche in ebraico. A quelli non importa di nessuno». Ha quasi 65 anni Achmad, 5 figli, numerosi nipoti. Raccoglie olive su quelle terre da quando era bambino. Il lavoro è lungo, bello e stancante. Per prima cosa, prima si mettono i teli di plastica a coprire il terreno, sovrapponendoli per chiudere i diversi buchi, poi inizia la raccolta. Bastoni, rastrellini di plastica, mani: tutto è utile per far staccare le ulive dai rami. Una volta ammucchiate per terra, i contadini si accovacciano per rimuovere rami e foglie. Le olive vengono poi buttate nei secchi e travasate in grossi sacchi di plastica, pesantissimi da trasportare.
«Arrivano i militari!» esclama qualcuno all’improvviso. Cinque militari stavano oltrepassando la rete, muovendosi nella nostra direzione, a oltre 300 metri di distanza. «Continuiamo a lavorare. Questa è la mia terra!». Negli occhi di Achmad brilla la rabbia di chi subisce abusi da troppo tempo. Sul suo terreno insieme a noi ci sono circa una ventina di persone, molte delle quali sono solidali internazionali venuti a sostenere i palestinesi in questo delicato momento dell’anno. La raccolta delle olive è infatti fondamentale per il sostentamento di migliaia di famiglie palestinesi e gli israeliani lo sanno bene. Per questo cercano di disturbarla o impedirla, dove possono. Quasi tutti in Palestina hanno qualche albero: l’olio palestinese è ben conosciuto in tutta la regione, figlio di una tradizione antica, e la sussistenza economica di molti villaggi è basata proprio sui prodotti che ne derivano.
Le terre intorno alle colonie sono le più problematiche: i coloni, a volte anche i bambini, cercano di mandare via i palestinesi per allargarsi con qualsiasi mezzo: pietre, bastoni, minacce, armi, di cui sono abbondantemente forniti dal governo israeliano. Il servizio di sicurezza dei coloni, il settlers-security, gira coi mitra. Ad esso si aggiunge l’esercito, che, con la scusa dell’autodifesa, spinge sempre più in là i palestinesi, dicendo che non possono stare nei pressi degli insediamenti.
I militari sbucano con i mitra imbracciati, giubbotti antiproiettile, ginocchiere, caschetto. «Cosa state facendo? Non potete stare qui, dovete andare via» ci dicono. Qualcuno tra gli internazionali inizia a riprendere col cellulare: viene subito indicato, circondato, documenti prego, passaporto, dammi il telefono. Viene imposto di cancellare subito tutto. I palestinesi, solo loro, vengono messi da parte e tutti identificati. Il privilegio occidentale si mostra ancora una volta in tutta la sua violenza.
I militari fanno domande – di dove siete, cosa fate qua – ma i solidali internazionali venuti a sostenere la raccolta sono tanti. Uno dei soldati, capelli rossi e occhi azzurri, parla un inglese perfetto, «molto british» sottolinea una ragazza che arriva dal Regno Unito. Potrebbe essere uno tra le migliaia di ebrei che ha scelto di partire dall’Europa per andare a unirsi all’esercito di occupazione israeliano, diventando in poche settimane cittadino di un Paese in cui non aveva mai vissuto, per scacciare un popolo che non ha Stato ma che ha sempre abitato quelle terre. Achmad parla ai militari in ebraico e, alla fine, i militari se ne vanno.
L’incontro sarebbe probabilmente terminato in modo diverso, se sul terreno ci fossero stati solamente i cinque palestinesi. «Stamattina hanno fatto problemi a un mio amico che lavorava laggiù» mi dice Achmad, indicando un punto a sud della rete, a qualche chilometro di distanza. «L’hanno minacciato i militari. Lui se n’è andato», aggiunge. «Noi siamo stati molto fortunati».
Le molte forme della violenza quotidiana
Yasar vive in un villaggio lì vicino, di lavoro vende frutta e verdura al mercato. Fuma sigarette anche mentre bastona i rami. Gli piace parlare, ci racconta di come si vive in Palestina, del quotidiano, della repressione. «Ho avuto paura prima, non voglio finire in carcere in questo momento» mi dice, «ho già passato sette mesi in prigione per una manifestazione». La violenza nelle carceri è ancora più forte dal 7 ottobre. La vendetta dello stato di Israele si è tradotta in migliaia di detenzioni amministrative gratuite, torture studiate e ripetute, assenza di visite di famigliari ed avvocati. «Hanno appena ucciso il cugino di mia moglie in un raid a Tulkarem». Lo dice come se si trattasse di eventi di routine. «È il quinto morto della famiglia dal 7 ottobre. A Tulkarem hanno ucciso centinaia di persone dall’inizio della loro vendetta». Si accende una sigaretta. «Non ci sono più strade nei campi di Tulkarem».
Secondo le cifre ufficiali, sono 783 i palestinesi uccisi in Cisgiordania dal 7 ottobre, e oltre 6.300 i feriti. Una cifra enorme, dovuta ai continui raid nei villaggi palestinesi e alla dura repressione nei campi e nelle manifestazioni. La vita dei palestinesi vale poco per i militari. Così come le loro terre. «Vedi lassù?» mi chiede Yasar, indicando la cima della collina di fronte a noi, sopra i settlement dei coloni. Un paio di strutture svettano al fianco di una specie di torretta con un’antenna. «Quello è un outpost, l’inizio di un nuovo insediamento. Prima ci mettono un container, una baracca, qualcosa. Poi una recinzione. Poi una casa. E poi diventa una colonia». L’hanno costruita nemmeno un anno fa, mi racconta, dopo il 7 ottobre. «Quelle erano le terre di mio nonno. Io mi ricordo da piccolo quando lo accompagnavo a pascolare le capre lassù. Ora se lo sono prese». Altra sigaretta. «C’è una canzone qui in Palestina, parla di Roma anche» ride. «Nerone a Roma, ha bruciato tutto. Nerone è morto, Roma è resistita…. come qui. L’occupazione finirà, la Palestina resisterà».
Kafr Qaddum è un villaggio situato a circa 13 chilometri a ovest di Nablus, una delle più grandi città della Cisgiordania. Conta intorno ai 4300 abitanti. Sono cinque gli insediamenti di coloni che compaiono sulle colline intorno alla cittadina, circondata da uliveti antichi. È un villaggio di resistenti Kafr Qaddum, con una storia di lotta che continua da oltre 20 anni. E che non ha nessuna intenzione di finire.
Undicimila dunam (1100 ettari) della terra del villaggio (circa il 52% dell’area totale) sono stati dichiarati “area C”, ossia si trovano sotto il pieno controllo delle Forze di occupazione israeliane, che negli anni si sono prese sempre più terreni. Come in molti altri luoghi, le IDF hanno vietato l’accesso ai terreni “troppo vicini” alle colonie, ossia a una distanza indefinita che determinano a loro piacimento, di svariate centinaia di metri. Un’azione del genere blocca e distrugge l’economia di sussistenza di centinaia di palestinesi del luogo, dato che il commercio di olive e l’olio che ne deriva sono una delle principali attività economiche di Kufr Qaddum.
La questione è anche un’altra. «Noi amiamo queste terre, questi alberi» dice Madhat, uno degli abitanti a cui impediscono l’accesso ai propri uliveti. «Noi amiamo la Palestina, è la nostra terra. Non ce ne andremo mai».
L’esercito dà ai palestinesi il permesso di raggiungere i terreni solo due volte all’anno, una per pulire i terreni, un’altra per raccogliere le olive. Tuttavia, i coloni spesso si impegnano nell’impedire comunque la raccolta, o distruggono gli uliveti per mandare definitivamente via i contadini palestinesi. «Noi non chiediamo la coordination, non vogliamo nessun accordo con le forze di occupazione. Dovremmo chiedere il permesso per accedere alle nostre terre?» insiste Abdullah, un altro palestinese del paese detenuto per la sua resistenza molte volte nelle carceri israeliane.
Oltre a vedersi negare l’accesso ai propri terreni, dal 2003 gli israeliani hanno bloccato la strada principale che da Kufr Qaddum portava a Nablus. «Prima ci mettevamo 15 minuti ad arrivare in città» dice Madhat. «Ora ce ne mettiamo almeno 45 a causa di questo blocco stradale permanente». Un cancello infatti impedisce il passaggio ai palestinesi. La strada ora è solo per l’insediamento israeliano, finanziato dal gruppo sionista di estrema destra Gush Emunim nel 1975 e da allora in continua espansione. Le denunce davanti ai tribunali israeliani non sono servite a nulla. Dal 2011 i cittadini di Kufr Qaddum hanno iniziato a organizzare manifestazioni settimanali che si svolgono tutti i venerdì, da ormai 13 anni. Le proteste cercavano di arrivare al cancello israeliano, la repressione è sempre stata fortissima. «Ci sparano addosso. Lacrimogeni, proiettili di acciaio rivestiti di gomma, proiettili veri. Abbiamo avuto tantissimi feriti negli anni, tanti hanno rischiato la vita» spiega Abdullah. Secondo Harretz, sono stati oltre 100 i membri della comunità feriti, inclusi 6 bambini. L’ultimo, un bambino di 9 anni a cui un soldato ha sparato in testa, è sopravvissuto per miracolo.
Sono almeno 175 i membri della comunità ad essere stati arrestati per aver partecipato alle proteste, più di mezzo milione gli shekel pagati dalle famiglie per le cauzioni nel corso degli anni. I tentativi di negoziazione sono caduti nel nulla. La comunità più volte ha offerto di interrompere le proteste se la strada fosse stata riaperta, ma le IOF (Israel Occupying Forces, some le chiamano qui i palestinesi) si sono sempre rifiutate. E le proteste continuano tutt’ora, anche se negli ultimi mesi spesso l’accerchiamento delle forze di polizia è così stretto che non riescono nemmeno a partire in corteo.
“Noi da qui non ce ne andremo mai”
Le violenze si ripetono uguali in ogni campo. Questa volta, quando arrivano i soldati, la raccolta delle olive è iniziata da poco. Il sole è già alto nel cielo. Due macchine bianche sono fermate sulla strada sotto i terrazzamenti e otto soldati si stanno avvicinando. «Continuiamo a raccogliere» dicono i contadini. Gli individui che si avvicinano sono armati, abbigliati con divise verde militare e mitra in spalla. Non hanno stemmi, le scarpe non sono tutte uguali. Difficile capire se sono coloni o militari, anche se non cambia molto: ormai hanno quasi gli stessi poteri e minacciano e arrestano nella stessa maniera. «Stop the work! Stop! You have to go away!» urla uno di loro. Il numero di raccoglitori stranieri aiuta sicuramente a far scendere il livello della loro violenza. I solidali internazionali servono a questo: abbassare il livello del conflitto con la propria presenza, limitando la repressione verso i palestinesi nel tentativo di permettere la raccolta delle olive. La maggior parte continuano a lavorare, alcuni si approcciano alle guardie «Qual è il problema?» chiedono in inglese. «Non potete stare qui, è illegale. Siete a meno di duecento metri dal settlement. Avete due minuti per andare via o vi arrestiamo». In realtà, il nostru gruppo è ad almeno cinquecento metri dalla colonia di occupazione. Tuttavia, discutere non serve a niente.
Quando i militari si accorgono della presenza del proprietario dell’uliveto, si rivolgono a lui in arabo, facendolo avvicinare. Inizia una discussione, i militari imbracciano le armi. Spintonano il palestinese verso la strada, ignorando le proteste dei solidali. «È sotto arresto. Lo sa che non poteva stare qui. Ora avete due minuti per andarvene o arrestiamo anche voi». La proposta di andarsene dietro la liberazione dell’uomo cade nel nulla. «Non devo contrattare con voi. Andatevene». Un militare mette una benda sugli occhi del contadino, poi estrae il cellulare e si fa un selfie con l’arrestato. I solidali continuano a discutere, prendono altro tempo, così che si riescono a raccogliere i frutti di altre due piante di olive. I militari iniziano ad innervosirsi. «Ora basta, sono 45 minuti che discutiamo e ve ne avevo dati due! Ora ve ne andate».
Tiriamo su i teli, raccogliamo le ultime olive e battiamo in ritirata. Per terra giace una specie di granata-lacrimogeno ancora piena di gas. Risale con tutta probabilità al 2023, quando, dopo il 7 di ottobre, quasi tutte le raccolte di olive erano state impedite. Un’altra vendetta dello stato di Israele verso il popolo palestinese, già largamente penalizzato nelle sue economie. Anche per questo motivo, quest’anno molte associazioni e movimenti hanno chiamato alla solidarietà internazionale e spinto giovani e meno giovani di tutto il mondo a unirsi ai palestinesi in questo complicato momento dell’anno. Sono centinaia le persone che hanno risposto all’appello di movimenti come ISM (International Solidarity Movement), Faaza o Operazione Colomba per fare da forze di interposizione a difesa della popolazione civile, nonostante la dichiarazione di guerra ai solidali pronunciata dal governo di Tel Aviv. Il ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, ad aprile ha infatti dato vita a una task force che punta proprio ad ostacolare gli attivisti stranieri in Cisgiordania. Sembra che il governo non voglia testimoni né intralci alla violenza che si abbatte sui contadini palestinesi tra gli uliveti.
Alcuni palestinesi ci aspettano un po’ più in alto, lontano dalla portata dei militari. Sono tranquilli, quasi abituati. Ci sediamo all’ombra di un grosso ulivo e tirano fuori il pranzo: manāqīsh con za’tar e formaggio in quantità, hummus e, ovviamente, sigarette. Madhat ci porta poi a bere un thé a casa sua.
Gli chiedo se succede sempre così. «Eh! Spesso» dice. «La settimana scorsa mi hanno arrestato tre volte». Ride. «Ti tengono cinque, sei, sette ore. Poi ti rilasciano». Spesso, vengono picchiati. Ma questo non me lo dice. «Qui è così». Dopo il thé ci offre il caffè. «Domani tornerò. E anche dopodomani». Ci stringe la mano. «Noi, da qui, non ce ne andremo mai».
[di Moira Amargi]
Articoli come questi indicano il fallimento del diritto internazionale , l’inettitudine delle nazioni unite e soprattutto l’ipocrisisa della comunità internazionale che ciancia tanto di difesa dei diritti, di democrazia ma che poi continua ad inviare armi ad uno stato come Israele che sta calpestando i piu’ elementari diritti umani.