114 anni fa nella stazione ferroviaria di Astapovo, nel cuore della taiga russa, moriva Lev Tolstoj. Dieci giorni prima lo scrittore ottantaduenne aveva lasciato la propria casa, in una fuga disperata malgrado il gelido inverno russo. La notizia della fuga rocambolesca di Tolstoj aveva subito raggiunto le orecchie della stampa: cronisti e giornalisti si erano messi sulle sue orme, pubblicando cronache dettagliate dei suoi spostamenti. La polmonite, sopraggiunta all’improvviso, lo costrinse a porre fine a quell’ultimo viaggio. Lev Tolstoj si spense ad Astapovo, e a rendergli omaggio accorsero ricchi e poveri, nobili e contadini, la Russia intera. Per noi occidentali non è sempre facile comprendere il ruolo e il peso che ebbe Tolstoj nella società russa e che ha tutt’ora. E non solo nel mondo russo.
Tolstoj, infatti, non fu soltanto uno dei più grandi scrittori russi mai esistiti. Le sue idee sulla disobbedienza civile e il principio della «resistenza tramite la non violenza» ispirarono Gandhi. Tolstoj fu anche uno dei primi animalisti ante litteram e un convinto anti militarista. «Fino a quando ci saranno i macelli, ci saranno anche i campi di battaglia. La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali.» Nel 1851 sì era unito come volontario nelle truppe russe impegnate nella conquista del Caucaso. Fu allora che diede alla stampe i Racconti di Sebastopoli, un resoconto di quell’inutile sofferenza che gli uomini s’infliggono gli uni contro gli altri e che prende il nome di “guerra”. Memorabili in tal senso le riflessioni del principe Andrej sotto il cielo di Austerlitz in uno dei passi più celebri di Guerra e pace, dove la condanna e il rifiuto della guerra diventano radicali.
Poi a partire dagli anni ‘80 del XIX, quando aveva da poco compiuto cinquant’anni, visse una radicale trasformazione. Si liberò delle sue ricchezze, vendendo il superfluo per darne il ricavato ai poveri, iniziò a indossare la sua caratteristica camicia da contadino con la quale sarebbe stato immortalato in decine di fotografie e di ritratti e si dedicò al lavoro nei campi e a vaste opere di riforme sociali. Nel XIX secolo chi aveva la fortuna di essere ospite a Jasnaja Poljana, non poteva non imbattersi nel padrone di casa con indosso una camicia da contadino e una falce in mano. C’è una scena in Anna Karenina in cui Levin, uno dei personaggi principali, falcia l’erba assieme ai contadini. Anche Tolstoj lo faceva: non disprezzava la fatica fisica o i lavori umili. Discendeva da un’antica famiglia nobiliare, i Volkonskij, ma si rifiutava di avere la servitù. Non sopportava le contraddizioni della sua esistenza, che erano poi le contraddizioni della sua epoca: il divario tra la ricchezza sfrenata dell’aristocrazia e la povertà assoluta del popolo. Le sue idee ispirate ai principi della carità cristiana e della fratellanza dei popoli diedero vita a un vero e proprio movimento spirituale.
Nel corso della sua vita scrisse migliaia di pagine tra romanzi, racconti, opuscoli e pamphlet, visitò le capitali di mezza Europa, costruì ospedali e scuole per i poveri, si sposò, ebbe tredici figli, fondò una casa editrice; fu uno scrittore, un editore, un marito, un padre e un profeta. Alcuni lettori provano un senso di disorientamento leggendo opere tanto diverse tra loro come Anna Karenina e La morte di Ivan Illich. Altri non riescono a spiegarsi il brusco cambiamento vissuto da Tolstoj negli ultimi anni della sua vita. Altri ancora, affascinati dalla straordinaria potenza espressiva di Tolstoj, vorrebbero soltanto mettere assieme i vari ritratti che la storia ci ha consegnato per capire quale dei tanti fosse il vero Tolstoj. Chi era davvero Tolstoj allora?
È il sofisticato uomo di mondo che conversa nei salotti e affascina i suoi ascoltatori. Non appena la conversazione si fa seria, i suoi occhi si animano di un sincero entusiasmo, preso dal puro piacere intellettuale di discutere, dialogare, argomentare. Tolstoj possedeva la capacità d’intessere una sinfonia di parole tanto seducente da affabulare anche gli spiriti più tiepidi.
Quando, stanco dalle chiacchiere mondane, si rifugia a Jasnaja Poljana, torna a essere il patriarca della famiglia che sorveglia i campi, organizza la vita della tenuta e dirige con sguardo paziente la costruzione delle scuole dei contadini, mentre si tiene in contatto con «persone versate in tutti i rami del sapere». Niente lo stimola, lo affascina di più di una conversazione brillante e di un intelletto acuto. Tra i suoi più cari amici annovera il compositore Serjej Tanejev con il quale ama giocare a scacchi e l’impetuoso Maksim Gork’ji, un vero «uomo del popolo», con il quale condivide la consapevolezza che la povertà e la sofferenza vanno combattute. Era solito dire: «se senti dolore sei vivo, ma se senti il dolore degli altri sei umano.» Lev ha sempre avuto il dono – scriveva sua cugina Aleksandra – di sentire tutto con una forza sconvolgente.
Fu così che conobbe Anton Cechov che poi diverrà il più celebre scrittore teatrale russo del XIX secolo. Si incontrarono in Crimea; dove Cechov tentava invano di curare la tubercolosi che lo affliggeva dall’età di vent’anni. Tolstoj prende sotto la sua ala questo giovane agile, snello, immancabilmente gentile, dallo sguardo triste, capace, però, di animarsi all’improvviso con un lampo d’ironia dietro le lenti del pince-nez; ama leggerne i racconti e fargli da padrino negli ambienti letterari.
Scrittori, compositori, musicisti, pittori, filosofi si uniscono alla comitiva di figli, nipoti, amici che pranzano a Jasnaja Poljana. Tolstoj è il generoso anfitrione, maestoso nella comoda blusa stretta in vita da una corda e le calosce ai piedi, che dà il benvenuto ai viaggiatori che si spingono fino alle porte di Jasnaja Poljana. Presiede i pranzi, le cene, consapevole di essere il perno di questo grande movimento di intelletti che non possono fare a meno di gravitargli attorno.
Alle volte però questa sovrabbondanza d’idee, quest’intensa vitalità dello spirito gli si rivoltava contro. «Mi capitava dapprima di avere dei momenti di perplessità, come se la vita si arrestasse e io non sapessi più come vivere né cosa fare e così mi smarrivo e cadevo preda dello sconforto. (…) Questi arresti della vita si manifestavano sempre sotto l’aspetto delle medesime domande: perché? E poi?»
La sera s’immerge nei libri e torna ad essere il pensatore solitario. Legge avidamente, spinto dall’urgenza di quelle domande che gli battono le tempie «e bisognava rispondervi subito, e se non vi rispondevo, non avrei più potuto nemmeno vivere». I personaggi di Tolstoj si domandano continuamente cosa sia il bene e cosa sia il male perché Tolstoj si poneva continuamente queste domande. Il credente appena nato, il pensatore pieno di dubbi e il riformatore spirituale si battagliano nella sua anima ed è a questo periodo che risalgono le sue opere più cupe e tormentate come La morte di Ivan Illich, Padre Sergej e La confessione.
Ma la vera felicità Tolstoj la assapora soltanto quando contempla la natura ed è immerso nella natura: «la bellezza mi accecava e mi prendeva d’improvviso con forza inaspettata. (…) e mi diventava gioioso vivere.» Ecco perché le pagine più belle delle sue opere sono dedicate proprio alla descrizione di un boschetto o di una foresta innevata, ed ecco anche perché divenne il portavoce di un ideale di vita non antropocentrico e rispettoso di ogni essere vivente.
Tuttavia non ci si può fare a meno di domandarsi quale dei tanti Tolstoj sia quello autentico. La risposta a questa domanda è molto semplice e molto complessa: era tutti e nessuno. Il sofisticato uomo di mondo, il generoso anfitrione dalla voce suadente e garbata, il pensatore solitario dominato da un’insaziabile curiosità, l’artista visionario, e il riformatore spirituale si fondono nell’immagine di questo vecchio dalla fluente chioma bianca, che sfoggia una virilità ascetica, senza un filo di grasso addosso, come se qualsiasi mollezza fosse stata consumata per alimentare quella fornace di passione che aveva messo in ogni cosa.
Tolstoj cioè è l’uomo che ha fatto esperienza di tutto, che ha vissuto ogni cosa, che non ha tralasciato d’indagare e assaporare ogni aspetto della vita, materiale, morale, emotiva, spirituale. Un intellettuale insomma che merita di essere definito un gigante, davanti al quale la nostra contemporaneità non può non impallidire ma anche cercare di trarre uno stimolo per sollevarsi dalla sua inerzia.
[di Guendalina Middei, in arte Professor X]