lunedì 2 Dicembre 2024

Il grido delle madri dei palestinesi incarcerati in Israele, senza voce né processo

«Mio figlio è in carcere da due anni e mezzo» dice Hanan all’Indipendente, la foto di un giovane sorridente sulla trentina impressa nella gigantografia che tiene stretta. Vuole raccontare Hanan, negli occhi si legge la paura per quel figlio che non sente ormai da più di un anno. «La situazione in prigione è molto brutta adesso» dice. «Non sappiamo più niente, perché non abbiamo più possibilità di comunicare con loro, in nessun modo. Nessuna istituzione, croce rossa o associazione dei diritti umani, nessun avvocato li può raggiungere per dirci come stanno. Siamo molto preoccupate per i nostri figli.» E aggiunge. «Spero che la mia voce raggiunga il mondo intero, e che qualcuno ci aiuti».

Sono circa un’ottantina le donne, le madri, le sorelle che si sono riunite a Nablus, lunedì 25 novembre, in solidarietà con le quasi cento donne detenute, contro il genocidio in corso a Gaza e per chiedere la liberazione dei loro familiari, nelle carceri israeliane da mesi o anni ma di cui dal 7 ottobre non hanno più notizie. “Vogliamo vivere in un paese ibero! Fuori le forze di occupazione! Bruciano Gaza con le bombe al fosforo, e domani tocca a noi” gridano in coro. E ancora “Noi non ci stancheremo, loro sono gli occupanti e i criminali. Uccidono i bambini della Palestina, uomini e donne insorgono contro questo”. Si ritrovano in una delle piazze principali della città, fanno cori, interventi, i cartelli con le immagini dei loro cari imprigionati stretti tra le mani. Chiedono la fine del genocidio e della guerra a Gaza, ricordano i morti, le violenze, e le 94 donne che soffrono nelle prigioni israeliane insieme ai 12mila uomini ad oggi rinchiusi.

Sono tante, troppe le storie. Tanta la paura e la forza di quelle famiglie che nonostante i rischi di arresto e detenzione continuano a scendere in piazza, a volte settimanalmente, per chiedere la liberazione dei loro cari e pretendere notizie. Come a Tulkarem, dove ogni martedì decine di persone si ritrovano fuori alla sede della croce rossa internazionale nella speranza che la loro voce venga ascoltata anche al di fuori del paese. Una banda di ragazzini armati di tamburi e strumenti musicali dà il ritmo ai cori, mentre famigliari e rappresentati delle associazioni dei diritti umani locali e in sostegno ai prigionieri politici si passano il microfono. “Con l’anima e con il sangue, difenderemo i nostri prigionieri! Alza la tua voce per coloro che hanno sacrificato la loro libertà” gridano insieme.

«Le condizioni nelle carceri dal 7 ottobre sono completamente diverse. Il numero di prigionieri è più che raddoppiato», dice Ibrahim Nemer, uno dei rappresentanti del Palestinian Prisoners Club di Tulkarem all’Indipendente. «Ci sono più di 10.200 prigionieri politici nelle carceri ora, mentre prima del 7 di ottobre erano 5000. Anche il numero delle detenzioni amministrative è aumentato enormemente. Ci sono quasi 3.400 persone in detenzione amministrativa, mentre prima erano 1.200». Comunque tantissimi, aggiunge sottovoce. La detenzione amministrativa prevede che una persona sospettata sia arrestata e tenuta in prigione potenzialmente a tempo indefinito, senza che le siano comunicate le ragioni dell’arresto e senza che le autorità israeliane abbiano l’obbligo di presentare prove a suo carico. Quindi senza nessuna possibilità di difesa.

«Mio figlio Samir è in prigione da otto mesi in detenzione amministrativa» testimonia una donna, la foto del giovane tra le braccia. «Ogni volta che finisce il periodo di detenzione glielo rinnovano. L’amministrazione israeliana rifiuta il permesso all’avvocato e a chiunque altro di visitarlo. Abbiamo notizie sue solo grazie ai prigionieri della stessa prigione che liberano». Si stringe lo scialle, forse per il freddo intenso, forse per la tristezza. «Mio figlio è malato, e non ha nessuna cura. Non gli danno le medicine. Non mandano le persone a curarsi». «Non ci sono più le condizioni umane di vita nelle prigioni. Ogni cosa che il movimento dei prigionieri aveva conquistato, è stata tolta» continua Ibrahim. «TV, libri, non ci sono più visite per i parenti. Non danno abbastanza cibo, né acqua… La maggior parte dei prigionieri ha perso decine di chili.» I prigionieri sono costretti a tenere gli stessi vestiti per settimane, e nonostante il freddo non gli danno le coperte necessarie. Perfino lo shampoo ed il sapone non vengono forniti.

«E’ tortura. Non ci sono altri modi di chiamarla». La vendetta dello stato di Israele nelle sue galere non si ferma da 13 mesi. «La maggior parte dei prigionieri ha la scabbia. Prima andavano all’aria, fuori dalle celle, due ore al giorno, adesso nessuna ora di aria è concessa nelle maggior parte delle carceri. Ovviamente, questo è contrario ai diritti umani… e a qualsiasi dichiarazione sui diritti dei prigionieri.» E poi c’è la tematica di come vengono classificati: la Cisgiordania è di fatto occupata dall’esercito israeliano dal 1967. Questo farebbe dei suoi detenuti dei prigionieri di guerra, o prigionieri politici. «Invece Israele non riconosce questo status, ma li considera prigionieri comuni, delinquenti. Se li considerasse prigionieri politici, o prigionieri di guerra, li dovrebbe trattare diversamente in accordo con il diritto internazionale».

«I militari invadono sempre le celle dove sono detenuti coi cani, li picchiano. Molti prigionieri sono stati uccisi in prigione, il numero è aumentato molto dal 7 di ottobre, molti sono i morti a causa delle torture e per l’assenza di cure mediche. Non ci sono le condizioni fondamentali per la vita… così che i prigionieri devono solo pensare a come sopravvivere…» Secondo il Palestinian Prisoner’s Society, sono almeno quaranta i detenuti morti in custodia israeliana dal 7 di ottobre. Ma potrebbero essere molti di più. Almeno 25 i corpi che non sono ancora stati restituiti alle famiglie.

«Siamo tornati al sistema-prigione di centinaia di anni fa. Sappiamo che molte persone a livello internazionale sono con noi, ma questo non è abbastanza. Perché tutti i governi stanno supportando Israele con armi, soldi, e anche con i soldati. Bisogna mettere più pressione sui governi per far cessare gli aiuti e il supporto a Israele e liberare tutti i prigionieri politici detenuti».

Ha due figli in prigione, Ibrahim, e un fratello. Un figlio con una sentenza di un anno; uno di tre anni. E il fratello con una condanna a 21 anni di carcere.

«Noi siamo come tutti, yani, come tutte le famiglie palestinesi… ma le difficili condizioni che i prigionieri stanno soffrendo, fanno preoccupare le famiglie sulla vita stessa dei loro cari in carcere. Il problema non è solo che sono detenuti e il tempo che bisogna aspettare affinché vengano rilasciati, ma oggi ogni giorno temiamo per le loro vite».

[di Moira Armagi]

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