Maltrattamenti fisici, nessuna assistenza sanitaria adeguata, somministrazione in segreto di quantità ingenti di psicofarmaci e nessun monitoraggio «rigoroso e indipendente» degli interventi delle forze dell’ordine: sono queste e molte altre le criticità riscontrate dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura o dei Trattamenti o Punizioni Inumani e Degradanti (CPT, organo del Consiglio d’Europa) all’interno dei Centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR) italiani e raccolte in un report, pubblicato questa mattina. Una realtà agghiacciante, per quanto già ampiamente documentata dal lavoro di alcune ONG sul territorio e di diverse indagini giudiziarie. In generale, il Comitato si è detto «molto critico» della generale gestione delle prigioni amministrative italiane, esprimendo dubbi su come questo modello possa essere riprodotto all’estero, come nel caso dell’Albania.
Le strutture italiane, scrive il CPT, somigliano molto «alle unità di detenzione che ospitano i detenuti in regime speciale», in ragione delle misure di sicurezza eccessive delle quali sono dotate – come le triple reti metalliche applicate alle finestre e le strutture esterne simili a gabbie. In un tale regime di messa in sicurezza, la totale assenza di attività ricreative o di qualsiasi altro genere, come di personale preparato a gestire le situazioni di forte stress contribuisce in maniera significativa allo scoppio di eventi critici e di violenza. Secondo il Comitato, che ha esaminato le condizioni dei CPR di Milano, Gradisca d’Isonzo, Potenza e Roma, appare evidente che gli appaltatori abbiano investito «sforzi minimi» nell’offerta di «attività di natura propositiva», fattore che può risultare estremamente deleterio in un contesto in cui la detenzione può durare mesi, se non anni interi. A tutto ciò va aggiunto il cibo avariato spesso servito alle mense, l’assenza di una adeguata assistenza sanitaria, le «pessime condizioni materiali», fino alla «carenza di scorte di articoli da toilette».
Lo stesso sistema di supervisione delle forze dell’ordine, riporta il CPT, dovrebbe essere rivisto. Nei CPR vengono infatti inviati a rotazione gruppi antisommosa e d’intervento, mentre sarebbero necessarie figure professionali appositamente preparate e in grado di riconoscere i sintomi di possibili reazioni da stress. Ai migranti non vengono nemmeno garantiti diritti basilari come l’accesso a un avvocato, le informazioni sui propri diritti e la notifica del loro trattenimento a terzi. In un tale contesto di estrema criticità, spesso le società non rispettono i capitolati d’appalto e gestiscono le strutture in modo non trasparente, mentre sono numerose le indagini penali aperte contro i gestori dei centri. Tali presupposti «mettono in discussione l’applicazione di tale modello da parte dell’Italia in un contesto extra-territoriale, come quello albanese».
Il ricorso a psicofarmaci in quantità eccessive e in segreto, somministrati ai detenuti al fine di tenerli sotto controllo, era già stato documentato dalle autorità in almeno due centri, ovvero quello di via Corelli di Milano e quello di Palazzo San Gervasio di Potenza. Le testimonianze dei detenuti, raccolte dalle organizzazioni che chiedono la chiusura definitiva dei CPR, raccontano di trattamenti analoghi anche nei CPR di Torino e di Gradisca d’Isonzo. Nel dicembre dello scorso anno le autorità avevano disposto il sequestro di Martinina srl, l’azienda che dal 2022 gestiva il CPR di via Corelli, a Milano, dopo un’indagine per frode e turbativa d’asta condotta dalla Guardia di Finanza. Nel corso delle operazioni, un medico aveva denunciato le condizioni aberranti nelle quali le persone erano trattenute. Tra queste, la somministrazione di cibo andato a male, le camere sporche e generali condizioni igieniche «vergognose», oltre alla presenza di persone detenute senza cure anche in caso di malattie gravi (come tumori al cervello o epilessia o disturbi di tipo psichiatrico) e l’assenza di attività ricreative o luoghi di culto.
Nemmeno un mese dopo, decine di persone erano state indagate per la gestione del CPR di Palazzo San Gervasio, a Potenza. Tra queste, una trentina in tutto, vi erano per lo più agenti delle forze dell’ordine e medici, oltre ai rappresentanti legali della cooperativa che aveva gestito fino a pochi mesi prima il centro (Engel Italia srl). Anche qui era finito sotto indagine l’abuso di psicofarmaci, somministrati ai detenuti a loro insaputa allo scopo di «renderli innocui e quindi neutralizzare ogni loro possibile lamentela per le condizioni disumane in cui spesso si trovavano a vivere».
Il tutto avviene mentre è sempre più evidente come il sistema dei CPR sia fallimentare anche dal punto di vista dell’obiettivo che si prefigge, ovvero il rimpatrio dei migranti espulsi dal Paese. A fronte degli ingenti costi di gestione per le strutture (si parla di milioni di euro in Italia, ma di quasi un miliardo di euro in cinque anni per le strutture in Albania), il tasso dei rimpatri effettivamente portati a termine si attesta, negli ultimi 8 anni, su una media inferiore al 50%. Insomma, un enorme spreco di risorse pubbliche per strutture che non solo violano la dignità e i diritti dei reclusi, ma non portano nemmeno a termine ciò che si propongono.
In risposta a quanto rilevato dal CPT, le autorità italiane si sono limitate ad ammettere di non aver mai condotto indagini penali sui casi di maltrattamento citati dal Comitato e che le autorità sanitarie avevano già ispezionato il CPR di Potenza in relazione al problema degli psicofarmaci. Le eccessive misure di sicurezza messe in piedi all’interno dei centri, poi, dipenderebbero «dall’alto tasso di vandalismo». Mentre nei centri di Shengjin e Gjader sarebbero adottate tutte le misure preventive necessarie per tutelare le condizioni di vulnerabilità. Un dato ancora tutto da dimostrare, dal momento che la maggior parte dei migranti inviati in Albania sono stati, per il momento, riportati indietro proprio perchè non idonei al trattenimento.
[di Valeria Casolaro]