venerdì 17 Gennaio 2025

Medie e grandi imprese italiane: sempre più profitti, sempre meno investimenti e salari

Un recente studio dell’Università La Sapienza di Roma ha messo in luce lo squilibrio che caratterizza la remunerazione del lavoro all’interno delle medie e grandi aziende italiane: a fronte di un aumento del fatturato e dell’utile netto delle società nel periodo compreso tra il 2020 e il 2023, infatti, non solo i salari dei lavoratori non sono aumentati, ma sono addirittura diminuiti. Allo stesso tempo, si registra anche un minimo reinvestimento di quegli utili nelle aziende, che servirebbe allo sviluppo di nuove competenze e tecnologie e all’ammodernamento delle fabbriche. Un fenomeno che, nello studio dei ricercatori guidati da Riccardo Gallo, è definito come “disaffezione imprenditoriale” e che, in realtà, mette bene in evidenza, da un lato, le dinamiche della cosiddetta “lotta di classe” in un periodo di crisi e di de-globalizzazione e, dall’altro, le difficoltà per le imprese italiane di essere competitive all’interno del sistema economico-commerciale e monetario dell’Unione Europea, in un momento gravato peraltro da inflazione e da un aumento dei costi energetici. Nel rapporto si legge che “la componente “lavoro”, nelle imprese industriali, nonostante contribuisca significativamente alla produttività del sistema produttivo, appare pesantemente penalizzata dalle politiche di redistribuzione della ricchezza generata” e che il divario retributivo con i Paesi industrialmente più avanzati “segnala una politica miope, destinata a produrre effetti negativi nei prossimi anni, acuendo problematiche che affliggono oggi le imprese […]”.

Nello specifico, il rapporto, elaborando i più recenti Dati cumulativi dell’Area Studi Mediobanca, evidenzia come nel 2023 il fatturato delle società industriali medie e grandi sia stato di un terzo (34%) più alto di quello del 2019 e come anche il valore aggiunto sia risultato superiore di altrettanto (33%), ma con una forte distorsione nella sua distribuzione. Infatti, la quota di valore aggiunto destinata ai salari è calata di ben 12 punti percentuali tra il 2020 e il 2023, a fronte di un aumento del 14% dell’utile netto. Se, da una parte, la remunerazione del lavoro dipendente è penalizzata a vantaggio del capitale di rischio dei soci, dall’altra, ad aggravare la distorsione delle dinamiche di gestione finanziaria delle medie e grandi imprese, vi è il fatto che negli ultimi quattro anni, gli imprenditori “hanno reinvestito nelle loro società solo il 20% degli utili netti e se ne sono invece distribuiti l’80% in dividendi, sottraendoli all’ammodernamento delle fabbriche”. Il mancato aumento dei salari è aggravato da un contesto economico in cui l’inflazione erode il potere d’acquisto. Questa dinamica nel medio-lungo periodo può portare a un aumento della povertà, alla riduzione della domanda interna e, dunque, alla recessione.

Tra le cause individuate nel rapporto della Sapienza alla base dello squilibrio nella distribuzione della ricchezza vi è anche il mancato rinnovo di molti contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL). Lo studio, infatti, afferma che “I quasi 6 milioni di lavoratori dipendenti di aziende aderenti a Confindustria entro pochi mesi resteranno per tre quarti senza contratto: il 53% ne ha uno scaduto negli ultimi 12 mesi, il 10% ne ha uno scaduto da oltre due anni, il 13% ha un contratto che scadrà entro la fine di quest’anno”. Il che significa una diminuzione del salario, considerato che i recuperi del periodo non coperto da CCNL, una volta rinnovato il contratto, non compensano mai completamente le perdite economiche subite nel frattempo. Ma questa potrebbe non essere la causa principale del problema dei salari: essa va piuttosto individuata, tra le altre cose, nella necessità di difendere la competitività mediante la compressione del costo del lavoro. Una dinamica che si è affermata non a partire dagli ultimi anni, ma dall’introduzione dell’euro: mentre con la lira era possibile svalutare la moneta e essere così competitivi sui mercati, specialmente per quanto riguarda le esportazioni, con l’introduzione dell’euro e il sistema di cambi fissi, ciò non è più stato possibile e la svalutazione della moneta è stata sostituita con quella dei salari. Secondo un rapporto di Bloomberg Economics del 28 dicembre 2018, “vent’anni di appartenenza all’euro non hanno portato da nessuna parte l’Italia. Legare la sua economia ad alta inflazione alla potenza esportatrice tedesca senza prendere misure per aiutare le sue aziende a competere ha visto l’Italia perdere una guerra di logoramento”.

Questo contesto non ha fatto altro che inasprire quella che con un’espressione ormai non più in uso  si può definire “lotta di classe” e che – come ha spiegato  in un’intervista a L’Indipendente il fisico e giornalista Marco D’Eramo – è già stata vinta dalle élite. Quest’ultime – identificabili nell’alta finanza e nel mondo bancario e industriale – sono riuscite a vincere la “guerra” in quanto hanno conquistato l’egemonia culturale e monopolizzato le categorie del discorso collettivo, affermando l’idea di uomo come “capitale umano”. Questo ha fatto sì che apparentemente la lotta di classe scomparisse, in quanto «non esiste più un imprenditore e un operaio, ma due capitalisti, dei quali uno investe denaro e l’altro capitale umano». In Europa, questo processo, è stato agevolato anche dall’impianto eurocentrico. Ma la tendenza alla concentrazione di ricchezza nelle mani di un circolo ristretto è diffusa in tutto il mondo occidentale e conferma quanto dichiarato da uno degli uomini più ricchi del mondo, l’imprenditore americano Warren Buffett: «è in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo». La compressione dei salari è probabilmente uno dei segnali più evidenti di questa “guerra” tra l’alta finanza speculativa e l’economia reale.

[di Giorgia Audiello]

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3 Commenti

  1. Ci sono dei presupposti errati: che la svalutazione della lira ci rendeva competitivi, che è sì vero ma era un palliativo per coprire una incapacità imprenditoriale; e secondo, che basta abbassare gli stipendi per restare sul mercato. L’impoverimento dei lavoratori e la mancanza di innovazione nelle aziende si ritorcerà contro alle aziende stesse. Già siamo a livelli record di fallimenti in Europa. La finanziarizzazione dell’economia renderà poveri anche i medio piccoli imprenditori che ora si sentono ricchi, saranno costretti a chiudere o vendere. Nel giro di una generazione o due saremo tutti veramente badanti o camerieri

  2. Bell’articolo. Se poi aggiungiamo che con l’ intelligenza artificiale applicata ai sistemi produttivi e la robotizzazione si perderanno ulteriori migliaia di posti di lavoro nel settore manifatturiero, agli Italiani non resterà che diventare badanti o camerieri.

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