giovedì 19 Dicembre 2024

Il confine fragile tra arte e politica

Pochi giorni fa Anna Netrebko, una delle soprano più celebri in Europa, durante la Prima al teatro della Scala, è stata accolta da un coro infamante di «buuu». L’opera che ha dato il là alle polemiche è stata, ironia della sorte, La forza del destino di Giuseppe Verdi, una tragedia che mette in scena uno dei drammi più antichi di tutti: l’amore tormentato tra due giovani, mentre sullo sfondo aleggia lo spettro della guerra. Nel finale dell’opera la voce abbagliante di Anna Netrebko, nei panni della bella Leonora, lancia il suo tanto eloquente quanto disperato appello: «Pace! Pace!». Interpretazione che le è valsa l’applauso entusiasta e commosso del pubblico. La sua presenza tuttavia ha dato il via a diverse polemiche e ha mobilitato gli attivisti pro Ucraina che hanno contestato la presenza della Netrebko, accusandola di essere una «sostenitrice di Putin».

«Non sono arrivati dopo le mie arie, ma solo quando sono uscita per gli applausi» ha precisato Netrebko che, ancor prima dell’inizio dello spettacolo, era stata preceduta da un drappello di manifestanti che invocavano e chiedevano a gran voce la sua cacciata da teatro. «Prendersela con Anna perché è russa è semplicemente ridicolo – ha commentato invece il sovrintendente Dominique Meyer – Di Netrebko ce n’è una sola, siamo felici di averla con noi». 

Al di là del fatto in sé, che è già abbastanza grave, quest’episodio solleva domande ben più interessanti: la Netrebko è stata discriminata perché russa? Qual è il confine tra arte e politica? Tra politica e propaganda? La piccola odissea mediatica vissuta dalla Netrebko dallo scoppio della guerra merita di essere ripercorsa perché può aiutare a rispondere a questi interrogativi.

Anna Netrebko è nata a Krasnodar, tra i cosacchi ucraini di Kuban, ma è cresciuta a San Pietroburgo, dove fu scoperta da Valery Gergiev. Sempre in Russia la Netrebko ricevette da Putin il riconoscimento di «arista del popolo». Con lo scoppio della guerra, quest’artista che ha ottenuto la cittadinanza austriaca, ma è figlia di entrambe le culture, ucraina e russa, ha scelto inizialmente il silenzio, non volendo essere strumentalizzata per ragioni politiche da una o dall’altra fazione. L’arte dopotutto dovrebbe essere universale. Non conosce nazionalità, genere, o Paese, non perché non abbia nazionalità, genere o Paese ma perché li trascende; più che dividere dovrebbe unire, più che separare dovrebbe avvicinare, ed essere quel proverbiale ponte che avvicina i popoli e le culture come auspicato nell’Inno alla gioia di Beethoven.

Vladimir Putin conferisce ad Anna Netrebko il titolo di “Artista del popolo della Russia” [Teatro Mariinskij, 27 febbraio 2008]
Eppure la scelta della Netrebko l’ha resa invisa a una parte del mondo occidentale e le ha chiuso le porte dei teatri, che in pieno clima bellico, hanno iniziato a guardare con sospetto tutto ciò che era di provenienza e di matrice russa. Diffidenza che si è tradotta, in quei fatidici mesi, con l’annullamento in Italia di un ciclo di lezioni su Dostoevskij diretto da Paolo Nori, scrittore parmigiano che di russo non ha nulla, e nell’esclusione degli atleti russi dalle Olimpiadi, a meno che non avessero rinnegato la loro nazionalità e rinunciato a esporre la bandiera del loro Paese. 

Alla fine, qualche mese dopo l’inizio del conflitto, tramite il suo avvocato, la Netrebko dichiara: «Condanno espressamente la guerra contro l’Ucraina, il mio pensiero va alle vittime e le loro famiglie. La mia posizione è chiara. Non sono membro di nessun partito politico, né affiliata a nessun leader. Amo la Russia, e attraverso la mia arte mi adopero esclusivamente per la pace e la concordia». 

Parole che in Russia, dove tra parentesi vive la madre, le costano l’accusa di aver «tradito la madrepatria». L’arte non dovrebbe essere strumentalizzata dalla politica, ma la vicenda della Netrebko evidenzia semmai l’opposto. Agli artisti non viene data la libertà di portare avanti il proprio lavoro senza dover sottostare al diktat che la propaganda impone. Essere russi oggi significa essere colpevoli fino a prova contraria, dato che il mondo Occidentale chiede, o meglio pretende, dagli artisti russi una sorta di pubblico mea culpa, una presa di posizione in favore delle posizioni occidentali, conditio sine qua non per potersi esibire e per poter continuare ad esercitare il proprio lavoro e la propria arte. 

La rappresentazione dei russi, non solo di Putin ma del popolo russo in generale, come una minaccia per l’Occidente ha permeato il discorso pubblico negli ultimi due anni. Passando dall’infelice uscita di Carofiglio «I russi sono culturalmente arretrati», fino all’altrettanto infelice e ridicola uscita di Beppe Severgnini che ospite a Otto e mezzo ha prospettato uno scenario apocalittico di un Putin che avrebbe invaso l’Europa e «sarebbe arrivato a Lisbona». Uno dei segnali più forti di una cultura dominata dalla propaganda di guerra è quando un intero popolo diventa il Nemico, non i suoi governanti o i suoi generali, ma il popolo nella sua interezza.

Io come la Netrebko amo la Russia: ne amo l’arte, la cultura, la letteratura. Chi non ha almeno una volta nella vita ascoltato qualche brano de Il lago dei Cigni o de Lo Schiaccianoci di Čajkowskij? E che dire di Puškin e di Tolstoj? O Dostoevskij? Paolo Nori una volta disse che «è molto più facile dimenticare il numero del telefono del primo amore, che la prima lettura di Delitto e castigo». C’è un motivo se in ogni parte del mondo, in ogni biblioteca le opere di Dostoevskij, a distanza di due secoli, continuano ad essere lette e amate. Incominciai a leggere i russi da giovane e da allora non li ho più abbandonati. Ogni volta che li leggo, provo un brivido tra le scapole. Nei romanzi di Dostoevskij trovai tutto quello che la letteratura dovrebbe suscitare: un fremito di sorpresa, un brivido lungo le scapole, una lettura in grado di farmi sentire ora euforica ora braccata. Quando lo lessi per la prima volta non riuscivo a staccarmi dalle sue pagine, perché quel libro scritto più di un secolo prima da un autore russo dal nome quasi impronunciabili, esprimeva con incredibile precisione quello che non riuscivo a formulare neppure a me stessa. Dostoevskij vi parlerà della passione, dove si crea, perché si crea, perché porta dolore, gioia e tormento. Vi descriverà l’anima umana in tutta la sua larghezza, in tutta la sua profondità, in tutta la sua immensità e di ogni uomo, di ogni sentimento vi spiegherà le caratteristiche, i dettagli, le particolarità, le origini, le sfumature. 

Eppure il riconoscimento del valore inestimabile dell’arte e della letteratura russa, che dovrebbero essere considerate patrimonio dell’umanità mi azzardo a dire, suscitano se non aperto disprezzo almeno un po’ di diffidenza. Diffidenza e sospetto che dicono molto del pensiero o più precisamente della propaganda che permea il discorso e la cultura occidentale che dovrebbero essere, invece, la culla della democrazia e del libero pensiero. Il condizionale non è un caso: la strumentalizzazione dell’arte, la politicizzazione forzata degli artisti, la morte del libero pensiero in nome della propaganda più spicciola di ideale non hanno nulla.

[di Guendalina Middei – in arte Professor X]

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni.

Ti è piaciuto questo articolo? Pensi sia importante che notizie e informazioni come queste vengano pubblicate e lette da sempre più persone? Sostieni il nostro lavoro con una donazione. Grazie.

Articoli correlati

Iscriviti a The Week
la nostra newsletter settimanale gratuita

Guarda una versione di "The Week" prima di iscriverti e valuta se può interessarti ricevere settimanalmente la nostra newsletter

Ultimi

Articoli nella stessa categoria