Ieri, domenica 18 gennaio, è entrato in vigore il cessate il fuoco a Gaza tra Israele e Hamas. Dopo un ritardo di tre ore, in cui Israele ha continuato i propri attacchi uccidendo 19 persone, lo Stato ebraico ha effettivamente cessato le aggressioni, dando a tutti gli effetti inizio alla tregua. Durante la giornata è stato effettuato il primo scambio di prigionieri, che ha visto tre israeliani e 90 palestinesi tornare nelle proprie case, mentre migliaia di cittadini gazawi hanno ricevuto aiuti e numerosi altri hanno iniziato gli spostamenti verso nord, per rientrare in quello che resta delle loro case. Nel frattempo, la politica israeliana è sull’orlo di una crisi: i cittadini hanno protestato contro il cessate il fuoco, il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha annunciato le proprie dimissioni e quelle dei membri del suo partito dal governo, e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich minaccia di fare lo stesso da giorni.
La tregua tra Israele e Hamas doveva iniziare ieri alle 8:30 locali, ma l’entrata in vigore del cessate il fuoco è stata ritardata, e l’esercito israeliano ha continuato a lanciare attacchi per circa tre ore. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha giustificato tali azioni con la mancata pubblicazione da parte della controparte della lista degli ostaggi che sarebbero stati rilasciati durante il giorno, e Hamas ha spiegato che il ritardo era dovuto a ragioni tecniche. Nella tarda mattinata, il gruppo palestinese ha riconsegnato tre ostaggi a Israele, mentre lo Stato ebraico ha consegnato in serata 90 prigionieri provenienti dalla prigione militare di Ofer. Nel corso della giornata, scrivono i media arabi, Israele avrebbe impedito i festeggiamenti in Cisgiordania e ritardato la consegna dei prigionieri. In Cisgiordania, comunque, gli scontri sembrano destinati a continuare, come testimoniato anche dagli stessi cittadini palestinesi. Ieri un adolescente palestinese è stato ucciso a colpi di arma da fuoco durante un raid delle forze israeliane nella città di Sebastia, a nord-ovest di Nablus.
Nel corso del primo giorno di cessate il fuoco, migliaia di civili sfollati sono tornati nelle proprie case e sono entrati i primi aiuti umanitari. Ieri il valico di Rafah, nel sud della Striscia, è stato riaperto dopo oltre sette mesi dalla sua chiusura. Decine di ambulanze e più di 630 camion che trasportavano forniture umanitarie sono entrati nella Striscia di Gaza, di cui almeno 300 diretti verso il nord assediato e bombardato. Dall’altra parte del confine meridionale, sono parcheggiati migliaia di mezzi che attendono di entrare. L’accordo, nella sua prima fase di quattro giorni, prevede infatti l’entrata di 600 camion di aiuti umanitari al giorno e lo scambio quotidiano di prigionieri. In totale, nella prima fase, Hamas riconsegnerà 33 ostaggi israeliani, mentre Israele dovrebbe rilasciare 600 palestinesi, tutti con condanne superiori a 15 anni.
Intanto, in Israele, la situazione è sull’orlo di una crisi. Gruppi di cittadini protestano da giorni contro l’entrata in vigore del cessate il fuoco, criticando lo scambio di prigionieri previsto dall’accordo. I media riportano una manifestazione tenutasi ieri per bloccare il convoglio di prigionieri da riportare in Palestina. Un’organizzazione per le “vittime del terrorismo” ha firmato una petizione contro la tregua, che è stata respinta dalla Corte Suprema israeliana. Questo moto di dissenso si sta facendo sentire anche nelle più importanti aule della politica dello Stato ebraico: Ben Gvir, insieme agli altri due ministri del suo partito Potere Ebraico, ha lasciato il governo criticando duramente Netanyahu, che intanto sta subendo le pressioni degli alleati di estrema destra, primo fra tutti Smotrich. Netanyahu, dal canto suo, prova a difendersi dalle accuse portando avanti una retorica bellicista, come testimoniato dal discorso rilasciato ieri in occasione dell’entrata in vigore della tregua. Trump, ha sottolineato Netanyahu, «ha accolto con favore l’accordo e ha giustamente evidenziato che la prima fase dell’accordo è un cessate il fuoco temporaneo». Il primo ministro israeliano sta facendo leva proprio su quest’ultimo punto per calmare le acque, rivendicando «il diritto di Israele a tornare a combattere, se Israele giunge alla conclusione che la seconda fase dei negoziati è inefficace», per cui ha il pieno sostegno di Trump.
[di Dario Lucisano]