Aveva ragione Carl Gustav Jung: ci sono pieghe irrazionali nella vita. Non tutto si spiega subito. Di conseguenza, non dobbiamo rifiutare quello che va contro le nostre teorie e aspettative: ci vuole tempo per capire, perché la sicurezza, la certezza, la tranquillità non portano da nessuna parte, impediscono le scoperte, occultano le novità. Tra stati psichici e avvenimenti esterni si formano relazioni di scambio: possono avvenire conferme e coincidenze non previste, possono presentarsi suggestioni inaspettate, lucidità rivelatrici, eventi inimmaginabili. In sostanza l’attesa rilassata ma vigile diventa alleata di quella speciale fisica delle sincronicità, di quelle coincidenze di pensiero e realtà, che ci possono stupire e inquietare. Ti accade, ad esempio, come se avessi chiamato in causa qualcosa o qualcuno senza averlo davvero fatto. E ti chiedi come è possibile, perché.
Esistono due forme del pensare, secondo Jung: la prima è il pensare indirizzato, che si esprime con il linguaggio e che è rivolto ad altri e si adatta ai contesti; la seconda opera invece spontaneamente con contenuti preesistenti ed è guidata da motivi inconsci: è il sognare o fantasticare. La prima imita la realtà e cerca di influire su di essa. La seconda invece «volge le spalle alla realtà», mette in libertà tendenze soggettive. Insomma, logos contro eros. Lo aveva sostenuto Aristotele, all’inizio della Metafisica: «Tutti gli uomini…amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità».
Il sogno, per esempio, ha la forza speciale di proporre banalità mescolate a rivelazioni, incontri con le circostanze di cui abbiamo già avuto esperienza ma anche con l’ignoto, in forma misteriosa, quasi mai chiara e razionale.
Un’altra forza speciale che va messa in campo, a mio parere, è rappresentata dal riconoscimento di avere torto: avere sbagliato reazioni, calcoli, valutazioni, decisioni. Ammetterlo è importante soprattutto nei confronti di noi stessi. Svela orizzonti, produce alternative, alleanze impreviste, conclusioni aperte. Rende il linguaggio, la comunicazione insufficienti: c’è bisogno di intuito, di fantasia, di forza simbolica per uscirne. Sempre che l’individuo non si nasconda, non fugga da sé, non voglia continuamente sottrarsi alle prove.
Una categoria di persone resta indenne da tutto questo: i politici. Tutti presi dal fatto di mostrare che gli avversari si sono sbagliati, tutti che si ritengono vociferanti dalla parte indiscutibilmente giusta, i politici rimangono estranei a una dote importante: quella della creatività, dell’inventiva, della novità di soluzioni possibili. Finché i politici non sapranno riconoscere i propri errori non potranno progettare nulla ma soltanto gestire con mille maschere il fluire del presente, riservando per il tempo futuro soltanto promesse o minacce, non soluzioni.
Io penso che il modo attuale di fare politica abbia annientato il valore creativo della politica, la sua forza immaginativa, la sua sensibilità, la sua apertura al cambiamento. Si prova un terribile senso di frustazione nell’ascoltare politici che non fanno trapelare sistemi di pensiero al di là dei fatti contingenti. Ma è ancora più grave che non facciano intravedere orizzonti di variazione, di potenzialità, di cambio di passo.
McLuhan, rispondendo a chi lo intervistava per Playboy (1969), sosteneva che bisogna «tracciare una mappa di nuove terre piuttosto che rilevare i vecchi punti di riferimento». Noi consumatori di comunicazione, infatti, rischiamo l’anestesia dalla consapevolezza di ciò che sta accadendo, indotta dai media, dai computer, dalla televisione. I media intensificano e amplificano i sensi e le loro funzioni ma nello stesso tempo li intorpidiscono, li privano di elasticità perché annullano e insieme esaltano il presente saturando con esso l’intero campo di attenzione.
Il soggetto sociale che ne è vittima ritiene che debba e possa avvenire soltanto quello che gli viene detto. Lo spettatore televisivo è convinto che i fatti riportati non facciano parte di ciò che è avvenuto ma soltanto si riferiscano a uno spazio lontano: il tempo è così annientato, lo spazio è collassato, è quasi soltanto digitale, non c’è causa ed effetto ma soltanto evento. La notizia quindi esaurisce il fatto, non lascia porte aperte, non lascia desideri, nemmeno quello elementare di sapere. Ogni delitto, ogni timore, ogni orrore sono una conferma del generale stato di cose, i fatti perdono i loro contorni reali.
Al soggetto passivo sembra che sia necessario soltanto ciò che il sistema, l’applicazione, l’uso dello strumento gli richiede: la percezione è ridotta al qui ed ora e l’errore è sempre e soltanto un guasto nella procedura, un intoppo che si deve poter superare.
Siamo diventati macchine esecutrici, dalle funzionalità preordinate e ripetitive, immersi in congegni che ci richiedono prestazioni, mai fantasie, mai deviazioni.
Un cambiamento radicale è ancora possibile? La distanza abissale dai centri decisionali non riguarda più soltanto i semplici cittadini; gli stessi politici e amministratori si conformano ad entità sovranazionali. E allora non capisci se il potere è questione di forza economico-finanziaria o di forza deterrente. Così la frustrazione di chi governa ma non ha niente in mano gli fa invocare orizzonti di guerra per riprendersi una centralità decisionale, visto che tutti gli aspetti economici sono in mano ad altri.
I potentati della ricchezza lasciano che i politici e i governanti frustrati giochino a Risiko ed escogitano l’impossibile affinché i cittadini si sentano estranei a quanto accade. Sempre più estranei sempre più manipolabili.
[di Gian Paolo Caprettini]
Molto interessante e stimolante.
“Senza teoria non c’e’ rivoluzione”, disse Lenin. Come l’articolo ben spiega e’ il presente visto come fatto a se’ ciò che attualmente e’ il comportamento della massa. I politici non hanno una visione totale della situazione e agiscono solo per risolvere un problema immediato. Ma e’ da constatare che anche la popolazione che protesta non lo fa avendo un quadro della visione totale ma giusto quello della situazione contingente. Nell’epoca precedente esistevano partiti che a loro volta erano connessi con una intellettualita’ e una base proletaria. L’azione dunque era vista in un quadro generale. La domanda attuale sarebbe quella di delineare che tipo di societa’ propugnare, quali rapporti si stabiliranno tra le persone, come sarà organizzata la produzione dei beni necessari a tutta l’umanità.
Grande e profondo articolo.