giovedì 30 Gennaio 2025

La scelta di Venezia di restaurare il graffito di Banksy è contro l’anima della sua arte

In questi giorni di fine gennaio, il murale veneziano di Banksy, Migrant Child, sarà rimosso per venire restaurato. L’opera era apparsa con le prime luci del 9 maggio 2019 sulle mura di Palazzo San Pantalon, un edificio storico del sestiere Dorsoduro, acquistato l’anno scorso da Banca Ifis proprio con lo scopo di restaurare il graffito. Ironicamente, con questa operazione di salvaguardia, il destino di Migrant Child è più che mai incerto. L’opera, similmente a ogni murale, era pensata appositamente per stare esattamente dove stava, e venire mangiata dalla stessa laguna da cui Banca Ifis e Comune dicono di volerla salvare. In questo, l’imminente restauro del murale di Banksy incarna perfettamente lo stato in cui riversa la concezione odierna dell’arte: da una parte intrappolata in una stagnante idea di “bene culturale”; dall’altra trasformata in un prodotto di consumo destinato ai salotti borghesi.

Un graffito è per definizione un’opera ribelle. Esso lotta strenuamente contro la logica della commercializzazione, della vacua contemplazione, dell’erezione sull’altare privo di significato di un museo. Il murale si espone con violenza al proprio pubblico, occupando le strade altrimenti vuote e obbligando i suoi inermi spettatori a guardarlo. Non è un caso se Tommaso Montanari e Vincenzo Trione hanno deciso di dedicare alla Street Art le conclusioni del loro libello Contro le mostre. Il breve scritto presenta le contraddizioni e le «polarità», che da anni alimentano il mondo dell’arte da esposizione: «mercato e cittadinanza», «chiusa antologia a pagamento e contesto aperto e libero», «dittatura di un presente sterile e dialogo vivo e fecondo tra passato e presente». Ed è proprio in quest’apertura del dialogo tra passato e presente che l’arte trova la sua dimensione.

La conclusione del pamphlet si apre proprio con un riferimento a Banksy e alla mostra Banksy & co. L’arte allo stato urbano, del 2016, tenutasi a Bologna. Essa era dichiaratamente pensata per ospitare le opere di diversi artisti di strada, «salvarle dalla demolizione e preservarle dall’ingiuria del tempo»; al lancio della mostra, diversi artisti, primo fra tutti l’italiano Blu, cancellarono le proprie opere per salvarle dalla prigione delle teche. Questo perché l’arte, specialmente quella di strada, non ha bisogno di venire «preservata dall’ingiuria del tempo». L’arte, come qualsiasi altra cosa, è nel tempo.

Se privata della sua dimensione temporale, l’arte non può che venire rinchiusa dentro quel concetto di “bene culturale” che la inquadra come un oggetto da ammirare con la dovuta distanza. Questa visione, pur rispettando l’integrità delle opere, finisce per porle in una dimensione aliena, immutabile ed eterna e allontanare il dialogo con esse, impedendo loro di assolvere il cruciale ruolo di testimoni del passato. A venire allontanato e rinchiuso in una teca finisce così per essere il passato intero, che costituisce l’identità di un luogo e dei suoi abitanti. Tutto questo, il graffito lo sa bene ed è per tale motivo che lotta attivamente contro il tempo, consapevole che prima o poi giungerà la sua inesorabile sconfitta. Sceglie di farlo tra le mura delle città, rivendicando gli spazi che abita, e riaprendo il dialogo con i propri concittadini. Lottando contro la musealizzazione urbana, si riappropria degli spazi comuni e li restituisce agli abitanti dando all’arte una forma fisica e materiale che come tale è soggetta al decadimento, ma che proprio nel decadimento porta avanti i propri obiettivi.

Migrant Child, poi, è un caso emblematico: il murale era stato realizzato lì proprio perché in una zona particolarmente soggetta all’erosione del traffico e delle onde lagunari. Diversi critici d’arte sottolineano come lo stesso significato dell’opera risieda nel suo farsi carico dello scorrere del tempo, come traccia della caducità della nostra memoria da una parte e del disastro ambientale a cui è soggetta la laguna dall’altra. E il fatto che l’iniziativa di restaurarla sia stata presa proprio a Venezia, con il beneplacito dell’amministrazione locale, non fa che riaffermare con forza quella logica di «disneyficazione» e svendita della laguna a cui la città è sottoposta da anni, di cui parla Salvatore Settis nel suo saggio Se Venezia muore. In una città-vetrina sempre più soggetta allo spopolamento, in una laguna sempre più alla mercé dei turisti, in un centro storico sempre più vicino a venire convertito in un museo a pagamento, il rischio è quello che Venezia si dimentichi di sé e perda la propria identità. Come un graffito senza muro.

[di Dario Lucisano]

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