venerdì 31 Gennaio 2025

35 anni senza giustizia: il delitto Agostino tra mafia, servizi e depistaggi

Sono passati trentacinque anni, ma non c’è ancora una verità giudiziaria sull’omicidio del poliziotto Antonino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio, avvenuto il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini (Palermo). La Cassazione ha infatti annullato con rinvio la condanna all’ergastolo del boss Nino Madonia, inflitta sia in primo che in secondo grado, stabilendo che il mafioso – punto di vertice del mandamento di Resuttana, uno dei gruppi più vicini agli ambienti dei servizi deviati e una delle fazioni più sanguinarie di Cosa Nostra – dovrà essere giudicato in un nuovo processo. Resta così avvolto nel mistero un delitto emblematico del ruolo sporco giocato con ogni probabilità da funzionari infedeli dello Stato. Segnato, e non è una novità, da gravi omissioni e depistaggi.

Un delitto oscuro

Non sono bastati gli accertamenti effettuati dai giudici di merito in relazione alle responsabilità di Madonia – cui vengono attribuiti decine di omicidi, tra cui quelli “eccellenti” del politico Pio La Torre, del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e del giudice Rocco Chinnici – sul delitto Agostino. La palla tornerà infatti alla Corte d’Assise di Appello di Palermo. Ma non è tutto: la Suprema Corte ha infatti azzerato, annullandola senza rinvio, la parte della sentenza riferita alla morte di Ida Castelluccio, ventenne e incinta di 5 mesi quando venne assassinata. Essendo già caduta in appello l’aggravante della premeditazione, infatti, l’intervento della prescrizione ha fatto tabula rasa.

Agostino e Castelluccio furono assassinati il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini, davanti al cancello della loro abitazione. Secondo quanto ricostruito dai pm, ad aprire il fuoco furono due killer arrivati su una moto di grossa cilindrata. Agostino tentò di proteggere la moglie, facendole scudo con il corpo, ma fu colpito a morte. Ida, rimasta ferita a terra, riuscì a gridare: «Io lo so chi siete» agli assassini del marito. Una delle due persone sulla moto si avvicinò e le sparò al cuore, uccidendola sul colpo. Poche ore dopo l’omicidio, l’appartamento di Agostino fu perquisito dagli uomini dello Stato e importanti appunti investigativi che l’agente teneva a casa svanirono nel nulla.

A rendere il quadro ancora più inquietante è la testimonianza del padre di Nino, Vincenzo Agostino. L’uomo ha raccontato che, poche settimane prima dell’omicidio, aveva ricevuto una visita da un individuo sconosciuto, che anni dopo sarebbe stato identificato come Giovanni Aiello, noto con il soprannome di “Faccia da Mostro”. Aiello, ex agente della squadra mobile di Palermo, aveva avuto come superiore Bruno Contrada (poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa) ed è stato più volte inquadrato dagli inquirenti come figura di raccordo tra mafia e ambienti dei servizi. Secondo il racconto di Vincenzo Agostino, Aiello si era presentato a casa sua tra l’8 e il 10 luglio 1989, accompagnato da un’altra persona. Aveva chiesto di Nino, che in quel momento non era in casa. Poi, senza salutare, si era avviato verso una motocicletta. Vincenzo lo aveva inseguito per chiedergli chi fosse, e la risposta era stata enigmatica: «Digli che siamo colleghi». Giovanni Aiello è stato indicato da diversi collaboratori di giustizia – tra cui Luigi Ilardo, Vito Lo Forte e Consolato Villani – come personaggio coinvolto in operazioni illecite tra mafia e apparati deviati dello Stato e collegato a numerosi delitti eccellenti. Aiello è morto nel 2017, senza aver riportato condanne, stroncato da un malore.

I servizi e l’Addaura

Nelle motivazioni della sentenza di appello con cui era stato inflitto l’ergastolo a Madonia, i giudici avevano evidenziato il ruolo che il boss ricopriva in Cosa Nostra sulla base di risultanze in merito alla figura di Aiello e dei suoi rapporti con Bruno Contrada, facendo riferimento alle «collusioni mafiose di alti funzionari di polizia e appartenenti ai Servizi», ai «depistaggi ascrivibili ad alcuni degli inquirenti dell’epoca» e «all’attività investigativa segretamente svolta dall’agente Agostino», ovvero la ricerca e la cattura di importanti latitanti. Il giorno del funerale di Agostino, indicando la bara, il magistrato Giovanni Falcone confidò a un suo amico commissario: «Io a quel ragazzo devo la vita». 44 giorni prima il giudice era scampato al fallito attentato all’Addaura: Falcone si riferiva probabilmente a un possibile intervento effettuato via mare da Agostino, accompagnato forse da un altro agente sotto copertura del SISDE, Emanuele Piazza, ucciso e fatto sparire nel nulla nel marzo 1990.

Lo scorso ottobre, in un altro troncone del processo, per il delitto Agostino è stato condannato in primo grado all’ergastolo il boss Gaetano Scotto. I legami tra Scotto e «uomini esterni a Cosa Nostra» sono stati confermati in Aula anche da vari collaboratori di giustizia. Tra questi, Francesco Onorato, il quale ha testimoniato che Cosa Nostra avrebbe costituito una propria “decina” a Roma con l’obiettivo di curare nella Capitale i rapporti con i servizi segreti, a capo della quale ci sarebbe stato proprio Scotto. A parlare, tra gli altri, è stato anche l’ex boss dell’Acquasanta Vito Galatolo, il quale ha dichiarato che, poco prima di morire, Agostino aveva fatto appostamenti fuori da Vicolo Pipitone, centro nevralgico delle attività dei boss del mandamento di Resuttana. Lo stesso luogo in cui, come sostenuto dallo stesso Galatolo, sarebbero entrate figure come Bruno Contrada e altri uomini appartenenti alle istituzioni. Il percorso è comunque ancora molto lungo, trattandosi solo di un verdetto di primo grado.

Un precedente

L’annullamento della sentenza sul processo Agostino sembra un film già visto. Lo scorso dicembre, infatti, la Cassazione aveva annullato con rinvio gli ergastoli inflitti al boss palermitano Giuseppe Graviano e al calabrese Rocco Filippone al processo sulla “‘Ndrangheta stragista”. Dopo che i giudici di primo e di secondo grado erano stati concordi nel ritenere «granitiche» le prove in ordine al ruolo avuto dalla mafia calabrese nella campagna di attentati che insanguinarono l’Italia all’inizio degli anni Novanta, la Suprema Corte ha deciso di rinviare il processo alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria. I giudici di merito avevano ricostruito le trame che avrebbero portato la mafia siciliana e la ‘Ndrangheta a concepire e attuare l’attacco frontale allo Stato, in una convergenza di interessi che avrebbe coinvolto anche pezzi dei servizi segreti e frange della massoneria deviata con l’obiettivo di «destabilizzare» lo Stato italiano in vista di un cambio di guardia nella sua classe dirigente, per poi far tacere le bombe e tornare nell’ombra. Anche in questo caso, però, tutto da rifare.

[di Stefano Baudino]

Ti è piaciuto questo articolo? Pensi sia importante che notizie e informazioni come queste vengano pubblicate e lette da sempre più persone? Sostieni il nostro lavoro con una donazione. Grazie.

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni.

Articoli correlati

Iscriviti a The Week
la nostra newsletter settimanale gratuita

Guarda una versione di "The Week" prima di iscriverti e valuta se può interessarti ricevere settimanalmente la nostra newsletter

Ultimi

+ visti