L’Europa, e l’Italia in particolare, si trova in una fase storica segnata da privatizzazioni sempre più aggressive, da una crescente dipendenza dai grandi fondi finanziari statunitensi e dagli effetti destabilizzanti del conflitto in Ucraina. Questi fenomeni stanno ridefinendo il panorama economico e politico del continente, mettendo a rischio la capacità produttiva, l’autonomia strategica e le relazioni commerciali con partner come la Cina. Per approfondire queste dinamiche e comprenderne le implicazioni, abbiamo intervistato Alessandro Volpi, professore di Storia contemporanea presso l’Università di Pisa, esperto di questioni politico-economiche e autore di libri come Breve storia del mercato finanziario italiano (Carocci, 2004) e il recente Padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia (Laterza, 2024). Volpi offre una lucida analisi di questi processi, illuminando i rischi che l’Europa sta correndo nel cedere settori strategici al capitale finanziario internazionale.
In Italia, la corsa alle privatizzazioni rappresenta un fenomeno di lungo corso, che non inizia certo con il governo Meloni. Ci sono, però, due differenze sostanziali. La prima è che questa nuova ondata di privatizzazioni viene effettuata dal primo governo a guida “sovranista”; l’altra è che, se in passato queste venivano giustificate con la necessità di cedere aziende spesso in perdita e mal gestite, che rappresentavano un peso per le casse statali, ora ci troviamo di fronte alla cessione di quote di aziende in attivo e che generano profitti per lo Stato. Cosa ne pensa?
L’agenda Draghi era criticata duramente, direi quasi ferocemente, per la sua eccessiva subalternità riservata alla finanza rispetto all’economia italiana. La premier Meloni, quando era una competitor elettorale, così come in parte anche la Lega di Salvini, sosteneva la necessità di rinazionalizzare alcuni settori particolarmente strategici, per evitare che finissero in mani straniere. Ora, tutta questa retorica mi sembra sostanzialmente sparita, poiché il Governo Meloni ha previsto nella legge di bilancio, fin dall’anno scorso, e ribadito quest’anno, una quantità di privatizzazioni per una ventina di miliardi di euro. Si tratta di una cifra considerevole, tenuto conto che, nel corso degli ultimi anni, nel nostro Paese il processo di privatizzazione si era almeno parzialmente fermato, dopo aver avuto una grande fiammata nel corso degli anni ’90.
Una ragione fondamentale è che la Meloni si è trovata a fare i conti con la realtà del nostro Paese. Se non si aumenta il gettito fiscale e non si riduce la spesa, bisogna fare ricorso al debito per coprire questo tipo di disavanzo. E qui sta uno dei problemi: la Banca centrale europea, dal dicembre 2023, non compra più il debito italiano, così come non compra più il debito europeo. Lo ha fatto dal 2012 fino al 2023, da quando Draghi lanciò il famoso “Whatever it takes”, considerato poi esaurito, secondo me in maniera assolutamente sbagliata.
Se hai bisogno di soldi, non aumenti le tasse e il debito costa troppo, è abbastanza evidente che devi cercare di fare cassa in altra maniera. E, quindi, per fare cassa devi vendere. Come giustamente lei dice, devi vendere le cose che hanno valore.
In un quadro storico, quindi, potremmo, in maniera un po’ brutale, dire che, se negli anni ’80 e ’90 le privatizzazioni seguivano un’ideologia di smantellamento di un’economia in cui lo Stato aveva una presenza forte, oggigiorno si procede sostanzialmente solo per racimolare qualche soldo?
Una grande differenza rispetto al passato è la seguente: rispetto agli anni ’80 e ’90, questi beni pregiati non vengono più venduti a soggetti di tipo industriale. In quegli anni, c’era un’ideologia secondo cui “privato è bello”: se una realtà viene gestita dal pubblico diventa un carrozzone in mano alla politica, mentre con il privato diventa efficiente. L’ideologia sosteneva quindi: “Affidiamoci a dei soci privati”, che siano soci industriali in grado di fare meglio ciò che lo Stato fa male.
Quello a cui stiamo assistendo in questa fase di privatizzazione, che, se vogliamo, è ancora più pesante che in passato, è il trasferimento della proprietà in favore di soggetti finanziari, i quali ragionano in termini prettamente finanziari, preoccupandosi prima di tutto del valore dei titoli delle società che acquistano.
I fondi di investimento statunitensi sono quelli che più di tutti hanno fatto man bassa in Italia, BlackRock su tutti, con Larry Fink ricevuto a Palazzo Chigi come un proconsole dell’impero americano. Quali sono le implicazioni economiche e politiche di questa posizione nei confronti degli Stati Uniti, a cui abbiamo ceduto pezzi veramente importanti di settori strategici del nostro Paese?
Questa privatizzazione, in termini finanziari, alla fine riduce e priva il Paese della capacità produttiva. Peraltro, un dato significativo è l’insieme del risparmio gestito italiano, ovvero il risparmio che gli italiani investono in polizze pensionistiche e sanitarie, che finisce in larghissima parte nelle mani di fondi come BlackRock, i quali trasferiscono il 60-65% di questi capitali nell’acquisto di titoli del debito pubblico americano o di società americane. Tant’è vero che il risparmio gestito italiano rimane in Italia per meno del 20% della raccolta complessiva. Stiamo parlando di 2500 miliardi di euro all’anno di questo tipo di risparmio. Quindi, è evidente che questa finanziarizzazione in chiave statunitense, veicolata anche dalle privatizzazioni, rappresenta un impoverimento profondo della struttura produttiva ed economica del Paese.
Questo, che sembra essere un fenomeno molto accentuato in Italia, è però evidente anche nel resto d’Europa, compresa la Germania, che attualmente versa in una grave crisi economica. Qual è l’obiettivo degli Stati Uniti in queste operazioni nei confronti dei Paesi europei? E perché l’Europa si sta ciecamente auto-sabotando per soddisfare, ancora una volta, l’interesse statunitense?
Risulta evidente che lo scoppio della guerra in Ucraina ha rappresentato un disastro per l’economia tedesca, così come per quella italiana, entrambe caratterizzate dalla possibilità di rifornirsi di gas russo a bassissimo prezzo. Ora, prive di questo gas, si trovano costrette a ricorrere a forme altamente inquinanti come il carbone o, in alternativa, al gas naturale liquefatto importato dagli Stati Uniti. Perché l’Europa agisce in questo modo? Probabilmente per una sorta di volontà suicida intrinseca, legata a un riflesso condizionato pavloviano di garantismo filo-atlantico che, oggettivamente, non trova spiegazioni se non nell’ottica di una sudditanza geopolitica, che ci sta privando anche dei rapporti con la Cina.
La Germania, a differenza del nostro Paese, era un sistema economico molto meno privatizzato, in cui le privatizzazioni avevano spesso favorito le imprese tedesche e il capitale finanziario nazionale. Questo modello, tuttavia, non è piaciuto ai grandi fondi americani, che vedevano nella Germania una terra di conquista. In Francia, invece, ci sono alcuni colossi che cercano di tenere testa, almeno in parte, ai grandi del capitalismo finanziario americano. Penso, ad esempio, a realtà come Amundi o Crédit Agricole.
[di Michele Manfrin]