martedì 11 Febbraio 2025

La nuova vita di Julian Assange: intervista esclusiva al fratello

All’alba del 25 giugno scorso, dopo 14 anni, è finito l’incubo per Julian Assange, giornalista d’inchiesta e fondatore di WikiLeaks, il portale che più di ogni altro permise ai cittadini del mondo di conoscere alcuni dei segreti inconfessabili del potere americano, come le stragi deliberate di civili in Iraq o l’opera di spionaggio ai danni degli alleati occidentali. Assange, dopo la persecuzione, culminata nella detenzione per cinque anni in regime di isolamento nella prigione di Belmarsh, nel Regno Unito, ha parlato una volta sola, al Consiglio d’Europa. Lui e la sua famiglia hanno schivato ogni intervista, un veto che il fratello di Julian, Gabriel Shipton, ha fatto cadere nei confronti de L’Indipendente. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente, grazie alla collaborazione di Patrick Boylan, cofondatore del gruppo Free Assange Italia, per una chiacchierata sul presente e il futuro di Julian.

Assange sta «ripartendo da zero», dalle cose che diamo più scontate nella nostra quotidianità: l’ottenimento di documenti, le passeggiate in spiaggia, la scoperta delle “nuove” tecnologie. L’editore passa il tempo nella sua Australia con la propria famiglia, recuperando gli anni persi e le energie che gli sono state drenate, all’insegna di una «nuova adolescenza». La pace, tuttavia, è ancora lontana. Dopo 12 anni di sostanziale prigionia Assange non deve vedersela solo con le difficoltà quotidiane, ma anche con le aspettative di un mondo che scalpita per sentire la sua opinione su delle cose che non ha ancora avuto il tempo di assaporare. Ne abbiamo parlato con Gabriel Shipton, suo fratello. 

Prima di tutto: come sta Julian?

Se la cava, comunque sta molto meglio. Ora vive nella campagna australiana e sta ricostruendo la sua vita praticamente da zero, ripartendo da tutte quelle cose che noi diamo per scontate nella nostra quotidianità: i documenti, il numero di assistenza sanitaria, la cittadinanza per i figli e tutto questo genere di cose. Ora ha la sua patente di guida e va in giro: è un po’ come se fosse tornato adolescente, perché si è ritrovato tra le mani una libertà rinnovata, che gli è stata negata per tantissimo tempo. Quella libertà se la sta godendo: adesso qui in Australia è estate, quindi i bambini sono in vacanza. Si sta godendo la bella stagione.

Come passa le sue giornate? 

Sta passando il tempo in famiglia e coi bambini. Loro sono cresciuti a Fulham, a Londra. Julian sta mostrando loro l’Australia, li porta nei boschi, nella campagna australiana, insegna loro a riconoscere la flora e la fauna del Paese e a interfacciarsi con la natura della nostra terra. Julian sa molto dell’Australia. È il posto in cui è cresciuto ed è in grado di condividere con loro tutte le sue esperienze passate. Penso che stia davvero apprezzando questa quotidianità da padre: il poter fare tutte le cose più semplici che noi diamo per scontate.

Le ha mai raccontato del periodo di prigionia?

Sì, certamente. Io sono stato in contatto con lui durante tutta la sua prigionia e sono andato a trovarlo molte volte. Ci sono stati dei periodi molto bui in prigione, in cui lo tenevano in cella 24 ore al giorno, sotto sorveglianza costante nel timore che si suicidasse. Direi che gli effetti della prigionia prolungata si fanno sentire ancora oggi e ci sono sicuramente cicatrici che richiederanno più tempo per guarire.

Da quando ha messo piede in Australia, le informazioni sul suo conto scarseggiano. Può raccontarci del momento in cui è arrivato in Australia? Cosa è successo?

Io non ero presente in quel momento, non l’ho visto fino a circa una settimana dopo perché mi trovavo in Francia. La sensazione di vederlo camminare sulla pista in Australia, abbracciare sua moglie Stella e mio padre sulla terra australiana, è stata travolgente. Mi sono trovato in un vero e proprio turbinio di emozioni. Abbiamo lavorato così tanto per arrivare a questo punto e abbiamo dedicato le nostre vite a far uscire Julian dalla prigione. Mi ricordo di un momento, dopo che l’ho rivisto, in cui eravamo insieme sulla spiaggia a guardare i nostri bambini giocare tra le onde. Io gli ho messo il braccio intorno alle spalle, lui si è girato verso di me e ha detto: «è incredibile, vero?», e io ho risposto «sì, è davvero incredibile». Eravamo sopraffatti dalle emozioni. È stato un momento indescrivibile: non pensavamo che sarebbe mai stato libero e condividere quei momenti insieme è stato davvero speciale.

Quanto ha pesato il supporto del movimento Free Assange sulla sua liberazione?

Il movimento per la sua liberazione ha fatto una differenza enorme e ha influenzato anche i leader mondiali a muoversi per lui. Oggi non sarebbe libero se non ci fosse stata la mobilitazione. Il movimento ha fatto una differenza enorme anche per noi, quando facevamo campagna per Julian, perché ci mostrava che potevamo e dovevamo spingere ancora di più con la campagna per la sua liberazione. Anche uno dei giudici ha menzionato il movimento mondiale in una sentenza: se ti trovi migliaia di persone da tutta Europa che si presentano fuori dal tribunale, è difficile ignorarlo. 

Da quando è stato liberato, Julian ha parlato in pubblico solo una volta, a Strasburgo, davanti alla Commissione per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa. È perché non si sente ancora pronto o gli è stato chiesto di non farlo?

Fosse stato per lui, non credo che avrebbe parlato così presto, nonostante l’invito del Consiglio d’Europa. Ora si sta riposando e si sta prendendo il tempo per fare cose normali e stare con la sua famiglia. Credo anche che prima di parlare in pubblico voglia prepararsi: su di lui c’è un’aspettativa forte. In tanti vorrebbero che ci raccontasse il mondo in cui viviamo ora, come si è visto dalle domande che gli hanno fatto a Strasburgo. Ma Julian deve prima conoscere quel mondo e familiarizzare con esso, se vuole riuscire a interfacciarsi con quello che sta succedendo e commentarlo nel modo in cui le persone si immaginano che lo faccia. Julian ha avuto solo un paio di mesi per entrare davvero in contatto con il mondo e con le nuove tecnologie, e vuole essere molto preparato prima di uscire e cominciare a parlare pubblicamente.

A questo punto immagino che non abbia progetti all’attivo

Sono sicuro che abbia qualche idea in mente e una serie di progetti che vorrebbe portare avanti, ma lascerò che sia lui a rivelarlo a tempo debito. Nel frattempo sta riposando, recuperando le energie e facendo ricerche per entrare davvero in contatto con il mondo e con le nuove tecnologie. Per esempio, si deve abituare al consumo dei media tramite i nostri telefoni. Prima che entrasse in prigione, non era così comune per le persone stare fissi sui propri smartphone tutto il tempo. Ora sta imparando a capire come una generazione diversa assimila le informazioni e quali sono le conseguenze di queste novità. Adesso, per esempio, si sta interessando all’IA e all’evoluzione dei social media, a TikTok.

Finora abbiamo parlato solo di suo fratello, ma vorrei conoscere anche il punto di vista di voi familiari di Julian: come avete vissuto questi lunghi anni?

Chris Hedges, giornalista statunitense che lavora spesso con i prigionieri e i loro cari, ha sempre detto che molte delle famiglie che incontra sono come se fossero in prigione coi loro parenti, perché tutte le loro attenzioni sono rivolte a quel familiare e a come mantenerlo in vita: così è stato anche per noi. Dedicare la vita a un familiare in carcere ha un impatto sulle tue relazioni, sulla tua famiglia: penso per esempio a mia figlia. Io ero spesso assente, viaggiavo, bussavo alle porte, dedicavo tempo alla campagna per Julian e questo sforzo ha avuto il suo prezzo. Per me, però, è sempre stata una cosa dolceamara: ho fatto nuove amicizie, ho scoperto di poter fare cose che non immaginavo e tutto ciò è avvenuto grazie alla campagna Julian. Ho imparato tantissimo e ho incontrato tante persone piene di amore e apprezzamento per ciò che abbiamo fatto noi e per Julian, e questo mi riempie davvero il cuore: è incoraggiante e ti fa andare avanti. Voglio dire, lo avremmo fatto comunque, ma sono tutte quelle nuove amicizie e quei sostenitori che ti tengono in piedi.

L’immagine di suo fratello è stata al centro di un fenomeno particolare: all’inizio, molti giornali hanno cavalcato l’onda e sfruttato le sue rivelazioni, per poi partecipare attivamente nella sua condanna e nella demonizzazione della sua persona. Cosa pensa della copertura mediatica sul tema?

Quando Wikileaks ha iniziato a fare le sue rivelazioni, Julian era una sorta di celebrità, un eroe che rivelava informazioni e con cui collaborare. Dopo tutto si vendevano quantità enormi di giornali con queste rivelazioni. Lentamente, la narrativa ha cominciato a cambiare. Sono iniziati gli attacchi e c’è stata una sorta di assassinio della figura di Julian Assange. Molte delle testate che avevano collaborato con lui sono diventate promotrici attive nella sua persecuzione. Penso che questo mutamento di prospettiva le abbia esposte e che ci abbia detto di più su di esse e su chi le influenzava.

Quanto è stato difficile mutare la narrativa su Julian?

È stato duro: abbiamo fatto dei film, sono stati scritti libri, e alla fine alcune di quelle testate giornalistiche, un po’ a malincuore, hanno iniziato a sostenere la liberazione di Julian. Ma ci sono voluti tempo e sforzi per smontare le calunnie e i danni che erano stati causati in precedenza. La persecuzione di Julian è stata possibile proprio grazie a queste calunnie nei media e al restringimento del suo supporto a causa di questi attacchi continui. Non voglio davvero nutrire rancore, ma penso che si debba guardare indietro e individuare il fenomeno con cui ci siamo interfacciati: prima vengono per i tuoi soldi, poi per la tua immagine e infine per la tua libertà. La persecuzione di Julian Assange dovrebbe essere una lezione per tutti noi: ci insegna che se vogliamo fare quello che ha fatto lui, dobbiamo proteggerci ed essere pronti.

[di Dario Lucisano]

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3 Commenti

  1. Appunto i giornali che avevano pubblicato le sue informazioni poi si sono rivoltate contro. Non i media conservatori ma anche quelli che si spacciano per progressisti come The Guardian e Il Manifesto: tutti agli ordini del potere anglosassone.

  2. Sono contento che proprio prima della liberazione, ero a Londra e sono entrato nel Palazzo di Giustizia e ho chiesto se come pubblico potevo vedere l’udienza e quando mi hanno detto che non era pubblica e quindi non potevo gli ho fatto proprio quella faccia lì che si fa’ quando ti fanno venire il vomito.

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