sabato 15 Marzo 2025

‘’Procida’’, una poesia di Iosif A. Brodskij (1986)

Baia sperduta; non più di venti barche a vela.
Reti, parenti dei lenzuoli, stese ad asciugare.
Tramonto. I vecchi guardano la partita al bar.
La cala azzurra prova a farsi turchina.

Un gabbiano artiglia l’orizzonte prima
che si rapprenda. Dopo le otto è deserto
il lungomare. Il blu irrompe nel confine
oltre il quale prende fuoco una stella.

Nella pittura e nella poesia il tempo disegna contorni. Lo sguardo
d’assieme cede ai dettagli, il particolare precede e segue il totale. La poesia sta
sul «ciglio del discorso», ha scritto Brodskij ne Il canto del pendolo: la poesia è
‘’tensione del linguaggio’’, ogni sua parola non è mai isolata: ’’richiede
continuazione’’. Tuttavia l’assieme di Procida si compone di sensazioni prima
che di parole e qui la percezione prende atto di una realtà frammentaria che la
coscienza dell’autore e del lettore attiveranno in una opzione comunicativa, in
un incontro e in un’intesa unica ogni volta.

Scriveva Aleksandr Potebnja, un teorico russo del linguaggio del secondo
Ottocento, che la poesia non trasmette significati preesistenti, già noti, ma tenta
di riprodurre l’essenza delle cose che sfugge alle percezioni immediate. E
come? Rendendosi ogni parola un microtesto, unità minima densa che riempie
uno spazio mentale, prima che prendere parte alla frase e al verso.

Scriveva, a sua volta, Salvatore Quasimodo che il poeta costringe la
propria anima a trasmettere i suoi segreti: la poesia non dice, non esprime
soltanto, ma cambia il mondo lasciando ogni parola con i suoi aloni, con i suoi
margini inespressi. Il catalogo dell’esistente diventa la popolazione simbolica
di uno spazio-tempo: «La luna rossa, il vento, il tuo colore/ di donna del Nord,
la distesa di neve…/Ho dimenticato il mare, la grave/ conchiglia soffiata dai
pastori siciliani,/ le cantilene dei carri lungo le strade…»(S. Quasimodo,
Lamento per il Sud, 1946).

Anche a Procida c’è uno spazio immerso nell’assoluto, senza un prima e un
poi, senza una causa e un effetto. Lo sguardo del poeta rifiuta la sintassi, cioè i
verbi. Il suo stile nominale organizza la visione in un modo fotografico, come
un regista che si prepara a girare e che ha bisogno di un certo numero di oggetti
e di persone: barche, lenzuoli, vecchi, un gabbiano, il lungomare, la stella.
Ma le “reti” sono “parenti dei lenzuoli”: e questo non c’è nessuna
immagine che può dirlo, se non ad esempio un montaggio lento che mostri le
une e gli altri in successione, suscitando somiglianze. Così entra appunto in
gioco la metafora, cioè la coscienza, cioè l’interpretazione. 

La poesia si fa ermeneutica: tenta di dire, forse, il maschile delle reti e il femminile delle
lenzuola, se pensiamo a una visione tradizionale che si ripartisce i compiti, e
lascia fuori i vecchi che si giocano a loro volta la metafora della vita come
partita al bar, depurata dalle sue contraddizioni e dai suoi ruoli, e distesa in un
tempo rituale.

In chiusura è l’orizzonte a caricarsi di una attesa bruciante, quella del
tempo che si affaccia come segno di una luce lontana, di un futuro, più ampio
chiarore nelle promesse della notte.

[di Gian Paolo Caprettini]

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