giovedì 24 Aprile 2025

Suwayda dopo Assad: la sfida drusa per una Siria unita e libera

È dal 9 dicembre 2024, il giorno successivo alla caduta del regime pluridecennale di Bashar al-Assad, che l’ampia maggioranza della comunità drusa di Suwayda – nel profondo sud della Siria – si dichiara pronta a lavorare per la creazione di uno Stato siriano unito e democratico. Anche gli israeliani, dal 9 dicembre scorso, non hanno perso tempo: hanno ampliato le terre occupate (dal 1967) sulle alture del Golan, bombardato città e stabilimenti militari siriani, e interferito nelle divisioni tra le comunità di un Paese che oggi aspira a ricostituirsi e a sanare cicatrici profonde.

Sono ancora molte le tensioni, culminate lo scorso primo marzo tra alcune forze armate filogovernative e la comunità drusa di Jaramana, un quartiere periferico di Damasco. Non è tardata ad arrivare la reazione di Netanyahu, che si è detto «pronto a difendere» le comunità druse minacciate dal «governo estremista e islamista siriano». Si tratta di un tassello della propaganda israeliana regionale, volta a raccontare un presunto desiderio separatista dei drusi dalla Siria. Ma la società civile drusa chiede una sola indipendenza: quella della Siria tutta, unita e libera da qualsiasi influenza straniera, compresa quella israeliana. «Rifiutiamo i separatismi e rivendichiamo l’integrità territoriale siriana» – così reagiva lo sceicco Hikmat al-Hijri, la più autorevole guida spirituale dei drusi siriani, alle bandiere israeliane issate per provocazione a Suwayda in seguito alle dichiarazioni di Netanyahu.

Il leader spirituale della comunità drusa in Siria, lo sceicco Hikmat al-Hijri

Pressioni esterne e compromessi forzati

Le minacce del premier israeliano hanno senz’altro accelerato le trattative con il governo ad interim su un accordo di unità – siglato il giorno dopo lo storico patto con le forze curdo-siriane del Rojava – su cui Ahmed al-Sharaa, l’autoproclamato presidente, temporeggiava ormai da mesi. I servizi di sicurezza di Suwayda saranno collegati al ministero degli Interni del governo di Damasco, ma la polizia locale sarà composta esclusivamente da residenti della comunità drusa. Sebbene siano stati i comandanti del consiglio militare di Suwayda a firmare l’accordo con al-Sharaa, lo sceicco al-Hijri ha preso le distanze anche da questa iniziativa. «Con l’attuale amministrazione non può esserci riconciliazione. Sono estremisti settari», ha dichiarato all’indomani dell’accordo stipulato con Damasco.

Ma facciamo qualche passo indietro. Sono entrato a Suwayda quando la Siria stava ancora festeggiando la cacciata del tiranno Assad. I drusi avevano già ottenuto un’autonomia de facto dal regime da ormai più di quattro anni, coordinando militarmente le forze armate popolari, un tempo divise in decine di milizie indipendenti. «Gli ufficiali del governo c’erano, ma scaldavano le sedie e rimanevano chiusi tra le mura delle zone militari, senza alcuna autorità e senza potere», mi confida Hazem mentre lasciamo la capitale per dirigerci verso il capoluogo della regione drusa.

Suwayda si raggiunge in due ore di bus da Damasco. In tutta la regione, il terreno e le pietre delle costruzioni antiche sono di un nero scuro per via degli ex vulcani, ormai diventati montagne, che quando arriviamo sono coperte da un sottile strato di neve. Incastonata nel profondo sud del Paese, al confine con la Giordania, era uno snodo molto importante per la rotta internazionale del Captagon. Anche per questo Assad aveva estremo bisogno di controllarla, riducendo all’osso l’attività economica. Prima dell’accordo siglato con il governo ad interim, la comunità di Suwayda era sospesa nel tempo, in attesa di capire il suo ruolo nella ricostruzione del Paese e nella difesa dalle minacce esterne. Qui non c’è Hay’at Tahrir al-Sham (HTS): comandano ancora i drusi, un popolo combattivo, non disposto ad abbassare la testa davanti ai despoti. «Il leader della resistenza contro l’oppressione coloniale francese era un druso di Suwayda», racconta Mirouat Anohamza, scrittrice e poetessa, a L’Indipendente. «Siamo forti perché siamo uniti. Noi ci fidiamo del governo, ma ci serve che anche loro si fidino di noi. Per adesso stanno mettendo in posizioni di potere soltanto musulmani sunniti di Idlib», aggiunge.

A Suwayda, e nei villaggi circostanti, vivono circa mezzo milione di drusi, quasi la metà di questa comunità nel mondo. Gli altri sono sparsi tra Giordania, Libano e Palestina/Israele. In Siria compongono il 3% della popolazione e, a differenza dei curdi, i drusi sono arabi. Nello specifico si tratta di una minoranza che ha aderito a un pensiero esoterico e crede nella reincarnazione. I drusi sono discendenti di una corrente sciita ismaelita. Hanno una società civile laica, ma le figure religiose svolgono un ruolo politico centrale. Si tratta di una comunità ristretta: per una persona drusa è infatti vietato sposare qualcuno al di fuori della comunità.

La gente di Suwayda vuole far parte della Siria, ma è pronta a lottare per mantenere integra la propria identità. «Difenderemo i drusi ovunque essi siano, siamo un tutt’uno dal Libano alla Giordania. Anche a Jaramana sono tutti nostri fratelli e parenti», spiega un esponente del consiglio militare di Suwayda a L’Indipendente, riferendosi agli scontri avvenuti a marzo contro alcuni uomini fedeli ad al-Sharaa.

«Difenderemo la nostra identità indipendentemente da ciò che accade a Damasco», sottolinea Anohamza, facendo intendere che, comunque avanzerà il processo di unità del Paese, la parziale autonomia e la relativa decentralizzazione di determinati organi istituzionali saranno imprescindibili per la popolazione locale. I drusi di Suwayda la libertà se la sono conquistata dopo decenni di sottomissione e – similmente ai curdi – si immaginano una Siria democratica con il potere più distribuito e meno concentrato a Damasco. La loro storia spiega da sé il perché di questo bisogno. «Storicamente i siriani ci hanno ritenuti vicini ad Assad perché, quando nel 1925 i francesi volevano separare Suwayda dal resto del Paese, noi ci siamo opposti», spiega a L’Indipendente M.S., attivista che ha passato anni nelle prigioni del regime. «Assad ci temeva però, per via della nostra indole combattiva», continua M.S. «È per questo che fino alla rivoluzione, Suwayda è stata sempre ghettizzata a livello economico», si inserisce di nuovo Anohamza.

Una delle tante grandi proteste dei drusi contro il regime di Assad

Resistenza e isolamento sotto il regime

Man mano che le violenze del regime venivano smascherate, i nodi di decenni di tirannia venivano al pettine, e questo ha creato spazio affinché le persone iniziassero a lottare per l’autonomia. «Nel 2016 i soldati drusi hanno deciso che non avrebbero più combattuto per Assad», spiega un giornalista druso di Syria TV a L’Indipendente. La strategia del regime diventava sempre più focalizzata sull’impoverimento della gente per costringerla a lasciare la città. Man mano che le milizie druse prendevano forza, diventava sempre più rischioso uscire da Suwayda. Da allora fino alla caduta del regime, la città è diventata a tutti gli effetti una prigione a cielo aperto. «All’epoca i nostri giovani o riuscivano a scappare, o li prendeva il regime, talvolta non abbiamo più avuto loro notizie», dice Abdul, avvocato di Suwayda, a L’Indipendente. «Dal 2016 non potevamo uscire dalla città. Dopo anni di stenti ho scelto di scappare per andare in Libano, ma al confine mi hanno catturato e messo in un carcere militare per tre mesi, per poi obbligarmi a servire nell’esercito». La storia di Hazem è molto simile a quella di migliaia di giovani drusi, diventati negli ultimi anni un target del regime per rimpolpare un esercito sempre più povero.

È nel 2020 che le forze armate druse della regione si uniscono sotto la guida delle milizie Karama (dall’arabo “dignità”), omonime del movimento che dallo stesso anno ha guidato le incessanti proteste contro il regime, ignorate dalla stampa internazionale. «Nel 2020 abbiamo preso la città», riprende Kinan Alprihe, giornalista di Syria TV. «Qui non abbiamo le bombe, il nostro problema è la sopravvivenza. Ci manca il cibo, anche per questo scappiamo», aggiunge Abdul, seduto affianco a lui. Ma la comunità drusa, prima di scappare, lotta. Dal 2023 le piazze della regione erano piene ogni giorno. Le proteste, iniziate per richiedere migliori servizi pubblici, si sono presto trasformate in un moto finalizzato alla caduta del regime. «Ci eravamo detti che avremmo lottato fino alla fine della tirannia di Assad», mi racconta Hazem. Così è stato. «La maggior parte di noi prima era considerata un alleato dell’ex regime. Abbiamo resistito e ora ci considerano dei ribelli», riprende Kinan.

Oggi la disponibilità a costruire la Siria democratica c’è, ma non a cedere i diritti conquistati. La maggior parte delle donne a Suwayda non indossa il velo e non accetterà nessun governo intento a imporglielo. «Quando il nuovo governo ci ha chiesto di nominare un rappresentante, abbiamo votato Muhsina al-Mahitawi, una donna. Ma la loro scelta è poi ricaduta su uno dei loro uomini in città», spiega una scrittrice di Suwayda a L’Indipendente.

«Damasco non ci dà garanzie. Il governo opera con la mentalità del partito unico», ci racconta lo sceicco Hikmat al-Hijri. Nonostante gli accordi di unità che il governo ha firmato con la comunità drusa e con l’SDF, non tutti a Suwayda hanno la stessa fiducia nei confronti di al-Sharaa. «Oggi i massacri su base etnica mossi da odio settario portati avanti da fazioni vicine al governo continuano», riprende al-Hijri, «soltanto la Siria di Assad è stata settaria: come Paese prospereremo se valorizziamo la diversità, non se la reprimiamo».

Solo il tempo ci mostrerà se l’atto di fiducia che il presidente ha concesso ai curdi e ai drusi si estenderà a tutte le comunità che compongono il mosaico della società civile siriana, e non solo a chi è ben armato. Questo sarà misurato dai progressi sulla Conferenza Nazionale che dovrebbe portare a una costituente, nella quale per ora né i curdi nel Nord-Est né i drusi nel Sud sono stati ufficialmente inclusi.

Tra speranze di unità e nuove minacce

Intanto l’altro tema urgente su cui il nuovo governo deve offrire soluzioni presto è l’integrità territoriale. La tensione è ancora alta sia a Nord, con le milizie filo-turche, sia a Sud, con l’occupazione israeliana che avanza. Per alcuni, il vero obiettivo di Israele è quello di rendere il Sud una zona cuscinetto tra lo Stato ebraico e la nuova Siria di al-Sharaa. «Vogliono creare un muro con la nostra gente tra loro, Hezbollah e l’Iran. Non vogliono la nostra terra», mi confida A., cittadino di Suwayda che, come tutti coloro che mi parlano di Israele, chiede che il suo nome non venga riportato. «Molti hanno paura dello Stato ebraico. La maggioranza invece si rifiuta di sottostare alle loro angherie. Non ne parliamo molto perché abbiamo paura che acquisisca centralità nel nostro dibattito pubblico», mi confida M. a bassa voce in un caffè nel centro di Suwayda. «Da sempre vogliamo essere parte della Siria», continua, «siamo con al-Sharaa se vorrà creare un Paese in cui tutti hanno i propri diritti».

Nelle piazze della regione, le numerose manifestazioni contro le violenze di Israele dicono chiaramente da che parte sta la gente. D’altronde conoscono la loro storia. Nel 2017 Yossi Cohen, ex capo del Mossad, ha dichiarato che «la Siria non tornerà a essere uno Stato unito». Similmente l’ex primo ministro israeliano Naftali Bennett, nel 2018, affermava che «ci devono essere entità indipendenti che riflettano la diversità settaria ed etnica. La Siria deve rimanere debole e divisa per il bene di Israele». «Già dal 1963», racconta a L’Indipendente A., guardandosi intorno, «Israele ha detto che una parte della Siria doveva andare ai drusi».

Nonostante ciò, c’è una parte della popolazione che si sente ancora minacciata da Damasco, oltre alla povertà lacerante che cresce e alimenta il discontento, e Israele lavora sempre più alla luce del sole. «Adesso a Suwayda alcune persone dicono apertamente di prendere soldi da Israele. Se prima la cosa era tenuta nascosta, ora sta emergendo», spiega F., militante del Partito Comunista Siriano a L’Indipendente. «Nessuno attacca al-Hijri, che è connesso agli americani, perché non si vuole sangue all’interno della nostra comunità», aggiunge. Sono infatti significative le parole di un membro del consiglio militare di Suwayda che ha riferito a L’Indipendente che «Israele non può essere considerato un nemico». Sempre più persone iniziano a pensarla così, dando spago alla strategia di Israele, che si sta insinuando con successo nelle divisioni del Paese. Qui come altrove, il futuro è nelle mani del popolo siriano e della società civile, che dopo decenni di guerre e massacri, vuole conquistare l’unità.

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Mose Vernetti

Giornalista e attivista. Ha studiato economia dello sviluppo alla SOAS University of London. Ha avuto diverse esperienze nella comunicazione politica, sia elettorale che nei movimenti sociali. Per L'Indipendente scrive di politica, movimenti, migrazione, oltre a redigere reportage da diversi Paesi in Medio Oriente e nel Mediterraneo.

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