venerdì 22 Novembre 2024

Tra mafia, Stato ed equilibri politici: cosa sappiamo dell’attentato a Borsellino dopo 29 anni

19 luglio 1992, ore 17 circa. Un’autobomba esplode in via D’Amelio, prima periferia di Palermo, assassinando il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traiana.

Sono passati appena 57 giorni dall’attentato di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

A 29 anni da quei tragici fatti ancora ci si chiede perché Cosa Nostra abbia compiuto due attentati così clamorosi e ravvicinati che innescarono l’inevitabile intervento repressivo – approvazione di leggi antimafia, invio dell’esercito in Sicilia, numerosi processi e condanne ai boss – da parte dello Stato, che almeno inizialmente, metterà in ginocchio l’organizzazione criminale, minacciando seriamente di cancellarla. La mafia scelse autonomamente la strategia stragista o come in altri fatti di sangue precedenti fu solo la mano che si lasciò guidare da una mente esterna, anche a scapito dei propri interessi? Su questi temi si è espresso il 16 giugno scorso anche il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo Roberto Scarpinato, durante un’audizione presso la commissione Antimafia siciliana presieduta da Claudio Fava. Paolo Borsellino forse aveva capito che c’erano dei pezzi esterni a Cosa Nostra invischiati nella strage di Capaci. Lui capisce che sarà la mafia a ucciderlo, ma che al contempo ci sono entità superiori che lo decideranno prima. Acquisisce altre notizie con cui capisce che c’era un continuo colloquio tra mafia e parti infedeli dello Stato.

A tal proposito significativa è la posizione del giudice Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione, scomparso nel gennaio del 2018, che per molti anni si è occupano della lotta a Cosa Nostra, Camorra e terrorismo e degli intrecci tra questi fenomeni criminali e centri di potere nazionali e internazionali, massoneria, servizi segreti e Gladio, la propaggine italiana della vasta operazione atlantista Stay Behind, volta ad arginare il pericolo della diffusione del comunismo negli anni della guerra fredda. Una struttura paramilitare voluta dalla Cia, la cui esistenza è stata resa nota al popolo italiano da Andreotti solo nel 1990, in una fase in cui, col tramontare della contrapposizione tra Usa e Urss, veniva meno anche la sua principale funzione storica, ma che avrebbe avuto un ruolo centrale per traghettare il paese dalla “prima” alla “seconda” Repubblica. Proprio su Gladio e sui suoi legami con mafie, destra eversiva e massoneria – affermava Imposimato – si concentrarono le indagini di Falcone dal 1990 in avanti.

La chiave di lettura della strage di via d’Amelio – continua Scarpinato – sta in eventi che hanno preceduto e seguito la vicenda. Isolare la strage è un errore metodologico che può portare a risultati fuorvianti e che potrebbe far pensare che ci siano stati solo interessi di Cosa Nostra in ballo. Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 si tennero in Italia e in Sicilia in contemporanea riunioni tra i massimi vertici di Cosa nostra e ‘Ndrangheta per discutere di un progetto di destabilizzazione del Paese. Si temeva un avvento al potere della sinistra e che in questo tipo di governo alcuni ruoli chiave potessero essere affidati a Borsellino e Falcone. Si temeva anche una regolazione di conti con il passato che avrebbe colpito i vertici delle associazioni criminali come la massoneria deviata, la destra eversiva e le mafie. In alcune riunioni si prese atto che i vecchi referenti politici avevano voltato le spalle e non potevano più garantire nulla. Servivano per questo stragi e altri atti eclatanti per destabilizzare il vecchio ordine politico e impaurire la popolazione. Il nuovo soggetto politico che sarebbe nato era una ‘Lega meridionale’ che poteva allearsi con la Lega Nord per dividere l’Italia in tre macroregioni. Il progetto era quello di creare una secessione, la Sicilia doveva essere autonoma in tutto e diventare una specie di Singapore. Nacquero tanti movimenti indipendentisti che dovevano fondersi in una unica Lega sotto la regia di Licio Gelli (Gran Maestro della loggia massonica P2, ndr)”, con il coinvolgimento di personaggi come il terrorista nero Stefano Delle Chiaie e mafiosi come Vito Ciancimino. Un ruolo “era esercitato anche da apparati dei Servizi legati a Gladio”.

I progetti indipendentisti però sfumarono velocemente per lasciare spazio ad una nuova creatura politica, il movimento Forza Italia che ebbe tra i suoi fondatori principali Marcello Dell’Utri, braccio destro dell’imprenditore Silvio Berlusconi, che di lì a poco sarebbe sceso in campo direttamente e nel 1994 avrebbe ottenuto la carica di capo del governo. Come noto Dell’Utri verrà poi condannato a sette anni di carcere in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e a dodici anni in primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Lui e Berlusconi sono ad oggi anche indagati dai magistrati di Firenze per concorso nelle stragi mafiose del 1993. Forza Italia invece continua a quasi trent’anni dalla sua nascita ad essere protagonista della scena politica nostrana, tanto da trovare posto anche nell’attuale governo Draghi, che gli riserva tre ministeri.

[di Massimo Venieri]

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