Dallo scorso 15 agosto, dalla caduta ufficiale del Governo afghano, l’aeroporto di Kabul è divenuto il fulcro della battaglia politica e ideologica tra NATO e talebani, una battaglia in cui si sono velocemente aggiunti elementi terzi più difficilmente sondabili quali Daesh.
Il risultato è un panorama confuso e caotico nel quale, di fatto, i militari dispiegati faticano a distinguere gli avversari dagli alleati e viene fin troppo facile premere i grilletti dei fucili. Nel parlare delle centinaia di morti che si stanno rapidamente accumulando bisogna dunque sottolineare un elemento rilevante: solo una parte è causata dai terroristi, altri sono uccisi dal cosiddetto “fuoco amico”.
Il fatto che le truppe fossero coi nervi a fior di pelle, che fossero predisposti all’errore, era evidente ancor prima che nell’equazione entrassero le manovre di Daesh. Solo una settimana fa, il 23 agosto, un cecchino ha esploso dei colpi sulla folla, scatenando un fenomeno emergenziale che ha risvegliato la pronta reazione delle truppe NATO – nello specifico dei tedeschi e degli statunitensi – e di quei pochi membri della Afghan National Army (ANA) che ancora affiancano i Paesi occidentali. Peccato che nel parapiglia NATO e soldati afghani si sono messi a spararsi reciprocamente.
Ancor più tragica è stata la questione dell’attentato terroristico rivendicata dal cosiddetto ISIS-K: almeno 170 morti e il sospetto che una buona parte di questi non sia stata causata dall’attacco in sé, ma da una reazione scriteriata di chi presidiava l’ingresso dell’aeroporto. Secunder Kermani, corrispondente della BBC, ha raccolto testimonianze sul come i corpi di diverse vittime fossero crivellati da fori di proiettile e da ferite non compatibili con quelle di un attentato terroristico di stampo dinamitardo. Raffiche di proiettili che, secondo le ricostruzioni dei locali, sarebbero partiti dai militari statunitensi e da quelli turchi.
Our report from last night on the awful ISIS attack outside Kabul airport as families still search Kabul's morgues for their loved ones..
Many we spoke to, including eyewitnesses, said significant numbers of those killed were shot dead by US forces in the panic after the blast pic.twitter.com/ac5nUVeJ4x
— Secunder Kermani (@SecKermani) August 28, 2021
Queste dichiarazioni troverebbero riscontro in altre fonti giornalistiche, ma una simile posizione è fermamente negata dagli USA, i quali hanno attribuito la responsabilità ad alcuni agenti Daesh nascosti nella folla. La vicenda è ora al centro di indagini.
Se è concretamente difficile decifrare gli avvenimenti del 26 agosto, certo è che gli Stati Uniti si stiano dimostrando lucidamente cruenti nell’assicurarsi che non si ripetano ulteriori attentati. Un drone a stelle e strisce non ha mancato infatti di neutralizzare un potenziale pericolo facendo detonare dalla distanza una camionetta ricolma di esplosivi, una manovra strategica che è però costata la vita a nove civili, almeno tre delle quali sarebbero bambini.
Distruggere una minaccia prima che possa trovarsi nella situazione di causare danni ingenti è una pratica militarmente logica, ma politicamente disastrosa. Gli afghani che si sentono già traditi dall’Occidente vedono ora i propri bambini martoriati sotto i loro occhi nel pieno della metropoli più importante del Paese. La cosa rischia di fomentare paura e rancore nei confronti di una forza estera che sta cercando di evitarsi nuove dimostrazioni di debolezza abbandonandosi alla violenza. Una violenza che peraltro non è stata concordata a priori coi talebani, i quali vedono la loro immagine istituzionale messa a repentaglio dalle scelte unilaterali assunte con atteggiamento vendicativo dalla Casa Bianca.
Al posto di rappresentare un baluardo di arguzia diplomatica, quanto sta accadendo all’aeroporto di Kabul sta assumendo una dimensione scoordinata e frenetica, una dimensione in cui le parti coinvolte tendono a muoversi autonomamente ed egoisticamente, che si tratti della difesa materiale del presidio o della gestione delle migliaia di rifugiati.
[di Walter Ferri]