“La Colombia è un alleato chiave dell’Unione europea e un partner affine a livello bilaterale, regionale e multilaterale”. Sono le parole con cui Ursula Von der Leyen ha presentato il nuovo accordo con il presidente della Colombia, Ivan Duque, volto a rafforzare sempre di più il legame tra Europa e il paese latinoamericano. Oltre a loro, alla cerimonia, svoltasi a New York nel quadro dell’Assemblea generale Onu, hanno partecipato personalità di spicco quali l’Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza Josep Borrell e la vicepresidente e ministra degli Esteri della Colombia Marta Lucía Ramírez.
Uno scenario molto promettente per il futuro dell’Ue, se non fosse che ci sono alcuni punti, però, da tenere a mente per avere più a fuoco la situazione globale che ruota attorno a una simile collaborazione.
Partiamo dal principio. Negli scorsi mesi il presidente Duque ha portato avanti una violenta repressione contro lo sciopero generale indetto dalla popolazione, cominciato il 28 aprile. Durante le manifestazioni 87 persone sono state uccise, di cui almeno 28 da parte delle forze dell’ordine, 1.905 quelle ferite, di cui 115 con armi da fuoco, oltre a 88 casi di lesioni oculari.
Perché i cittadini sono scesi in piazza? Per opporsi all’intenzione del governo di Iván Duque di mettere in campo una riforma fiscale svantaggiosa per le classi popolari, che avrebbe gravato su di esse per risanare le casse dello Stato svuotate dalla corruzione e dalla pandemia. Lo stesso iter che avrebbe seguito anche la riforma sanitaria proposta dal presidente, a cui i colombiani si sono fortemente opposti fino al 1° maggio, quando Duque ha stabilito la militarizzazione delle città. L’utilizzo della forza militare, delle armi e della violenza non è una novità nel paese. I cittadini assistono continuamente alle uccisioni di leader sociali, i cui assassini rimangono il più delle volte impuniti.
L’Unione Europea, firmando il nuovo accordo, accetta tacitamente comportamenti di questo tipo, facendo finta che niente sia accaduto o accadrà. «Un’altra pietra miliare nel cammino verso relazioni sempre più profonde e ampie tra l’Ue e la Colombia», che, ricordiamolo, è anche il primo paese latinoamericano a entrare nella Nato nel 2018, come «partner globale». Sono questi i termini con cui i diplomatici parlano “dell’alleanza”, senza mai far riferimento, nemmeno per un attimo, ai massacri che si registrano ogni anno fra leader sociali e difensori dei diritti umani. L’Istituto di studi per lo sviluppo e la pace ne ha contati 124 solo nel 2021, per un totale di 831 a partire dall’insediamento di Duque nel 2018 e di 1.239 dalla firma dell’Accordo di pace.
E i primati continuano. Per il secondo anno consecutivo la Colombia si trova in cima alla lista dei Paesi in cui vengono ammazzate più persone che difendono la Pacha Mama (Madre Terra). Nel paese per i leader comunitari e i popoli indigeni è una continua lotta alla sopravvivenza, una lotta che non fa abbastanza rumore da finire fra le notizie di cronaca europee.
Un nuovo capito che dimostra come la politica “in favore dei diritti umani” dell’Unione appaia sempre più piegata alle ragioni geopolitiche, al punto da apparire come mera arma retorica da brandire solo contro i governi ostili. Una politica analoga a quella statunitense, da sempre orientata alla logica due pesi e due misure in tema di diritti umani. Come inquadrare se no, ad esempio, la durissima risoluzione approvata di recente dal Parlamento Ue contro Cuba, dove nessuna violenze analoga è stata registrata, in confronto al silenzio del quale gode il governo colombiano?
[di Gloria Ferrari]