Greenwashing, termine molto sentito in questi ultimi anni, coniato già negli anni ’70 e che vede i primi procedimenti penali nel 2013. Il termine indica una “strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne il reale impatto ambientale negativo”. Una maschera verde utilizzata per ripulirsi l’immagine, illudere i cittadini e continuare a fare i propri interessi.
La messa in pratica ha forme innumerevoli. La più utilizzata è basare la comunicazione su una singola caratteristica green ed ignorare l’intero impatto del prodotto, falsando per ecologici prodotti che non lo sono. Dai risultati in tribunale è emerso che si tratta della pratica più utilizzata (negli USA nel 73% dei casi analizzati, in Inghilterra fino al 98%). Molte altre sono tuttavia le tecniche: false certificazioni (usando parole o immagini per dare l’impressione che ci sia un certificato di parte terza, inesistente); pure e semplici menzogne (famoso il caso di Eni, multata per 5 milioni dall’Antitrust per la pubblicità di ENIdiesel+, nella quale veniva dichiarato falsamente che con il carburante in questione le emissioni gassose sarebbero state ridotte del 40%).
Il greenwashing ai danni dei popoli inermi
Queste le modalità dirette e più ovvie. Tuttavia esistono altri tipi di greenwashing, più sommersi, e di conseguenza meno identificabili, solitamente usate da governi ed, a sorpresa, proprio da enti che si occupano d’ambiente. Infatti il loro reale e visibile impegno nel campo permette di attuare pratiche altamente dannose per l’ecosistema, senza che siano identificate come tali. Un’inchiesta tenuta da Survival International, organizzazione no profit senza finanziamenti governativi che tutela i diritti degli indigeni e la preservazione dell’ecosistema, ha recentemente denunciato il WWF. Secondo la loro indagine la celebre organizzazione ambientalista avrebbe violato i diritti umani del popolo Baka istituendo una riserva naturale nel loro territorio, cacciandoli e mettendo in atto azioni di violenza.
Ma questa è solo la punta dell’iceberg. La nuova campagna su cui si sta concentrando la multinazionale dell’attivismo ambiente mira a fare pressioni legislative per essere autorizzati a dichiarare i territori indigeni riserva naturale. Sulla carta sembra tutto molto “green”, quello che viene omesso è l’intenzione di cacciare con la forza i popoli sui territori ed aprire le riserve al turismo. Inutile sottolineare come questo danneggerebbe fortemente quelle terre, le ultime al mondo rimaste incontaminate, un vero e proprio polmone di sopravvivenza per la razza umana. Accuse forti, basate su interviste agli indigeni, a cui il WWF ha risposto con un comunicato stampa, dicendo che avrebbe mostrato tutta la cronologia della vicenda per fare chiarezza. L’intoppo? Il link rimanda ad una pagina inesistente. Tutto ciò appare surreale, ed è un perfetto esempio di quanto sommerso il greenwashing possa essere.
Usare i giovani che si battono per il pianeta
Anche i vertici internazionali hanno usato magistralmente questa pratica, indicendo la Youth4Climate: Driving Ambition. L’evento è teso a dare ai giovani, pomposamente definiti i “capi di Stato del futuro”, la possibilità d’elaborare proposte concrete sulle questioni più urgenti che riguardano l’agenda climatica e sulle negoziazioni della COP26 di Glasgow. Quasi 400 giovani (due per Paese) provenienti dai Paesi membri dell’UNFCCC (Convenzione Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) hanno avuto momenti di dialogo coi ministri presenti alla Pre-COP26 a Milano, presentando quattro punti chiave per contrastare i cambiamenti climatici, in attesa di presentare le proposte definitive a Glasgow. Sebbene possa sembrare una svolta nel panorama politico odierno, così non è stato. L’intervento, seguitissimo a livello mediatico, è stata una vera e propria campagna pubblicitaria per riabilitare l’immagine dei governi mondiali e vestirli di “green”. Sei giovani delegati, ben consapevoli di tale facciata, sono stati espulsi dal MiCo per essersi presentati con cartelli e cori “basta greenwashing”. «Siamo stati mandati via dall’incontro con Draghi. Ora la sicurezza ci tiene fuori, ci hanno preso i passaporti e ci hanno schedati» scrive su Twitter l’irlandese Saoi Ó Chonchobhair».
Il greenwashing del governo Draghi
Una pratica, quella del greenwashing, della quale si sta rendendo protagonista anche il governo italiano, definito da Draghi al momento dell’insediamento come il “primo governo ambientalista” al punto da nominare anche un ministero alla Transizione Ecologica, formalmente incaricato di verificare che gli investimenti siano in linea con gli obiettivi climatici. Lo stesso ministero che, alla prova dei fatti, in sede europea si mette di traverso contro lo stop ai combustibili fossili, che difende l’utilizzo del glifosato nell’agricoltura e che ha approvato sette nuovi progetti di trivellazione.
[di Erica Innisi – attivista di Fridays For Future]
Ci aggiungerei anche Greta e chi la manovra.