In una lettera inviata alla Commissione Europea il 7 ottobre scorso, i ministri dell’interno di 12 Stati Membri hanno chiesto all’UE fondi per finanziare la costruzione di muri lungo le proprie frontiere, per arginare l’arrivo di migranti dalla Bielorussia. Gli Stati firmatari sono Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia.
Nella lettera si legge che la sicurezza delle frontiere esterne di tali Paesi è fondamentale per “l’integrità e il normale funzionamento dell’area Schengen” e che “nessun Paese terzo dovrebbe poter sfruttare le nostre politiche di migrazione e asilo per esercitare una pressione politica e minacciare l’UE e gli Stati Membri, o sfruttare l’attuale situazione in Afghanistan”. Tra le righe si legge la malcelata manovra politica contro lo stato bielorusso di Lukashenko. Questo infatti starebbe utilizzando i migranti come strumento di pressione nei confronti dell’UE, dopo che questa ha imposto dure sanzioni al governo bielorusso in seguito alle elezioni fraudolente del 2020. Si tratta di migranti per lo più iracheni e afghani, mobilitati in gran numero dopo le recenti crisi in Medio Oriente.
Non si tratta del primo esempio di uso politico e strumentale dei richiedenti asilo da parte dei governi. Sono stati diversi i leader che hanno sfruttato il flusso dei migranti verso l’Unione Europea per esercitare pressioni di qualche tipo, da Erdogan a Gheddafi. La debolezza del sistema di accoglienza ha reso l’Unione vulnerabile a tali pressioni, spingendola a chiudersi (letteralmente) sempre più tra le proprie mura, soluzione che si rivela tuttavia inefficace nel lungo periodo. Lo insegna la storia. La Fortezza Europea, fondata su accordi quali la Convenzione di Ginevra del 1951 e il suo imprescindibile principio di non refoulment, segna così sempre più invalicabili linee di demarcazione tra inclusi ed esclusi.
La parola “muro” richiama alla mente la costruzione voluta da Trump al confine tra Stati Uniti e Messico, che ha suscitato non poca indignazione nell’opinione pubblica. Tuttavia l’Europa fa da tempo ricorso a tali strategie lungo i propri confini. A poco più di trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, uno dei più importanti eventi del XX secolo, che sembrava segnare la fine della divisione del mondo in due poli opposti, i muri proliferano in Europa più che mai. Sono oltre mille i km di recinzioni e filo spinato che seguono la linea delle frontiere europee. Per citare qualche esempio, la Grecia ne ha costruita una di 40 km lungo il confine con la Turchia, per evitare il possibile ingresso di profughi afghani. La Lituania si prepara alla costruzione di un muro alto 4 metri lungo i 500 km di confine con la Bielorussia, che avrà un costo di circa 150 milioni di euro (in parte stanziati dalla Repubblica Ceca) e sarà terminato per settembre 2022. Ad agosto la Polonia ha iniziato a costruirne uno alto 2.5 metri, con caratteristiche simili a quelle del muro costruito dall’Ungheria al confine con la Serbia nel 2015. Ceuta e Melilla, piccoli avamposti spagnoli sul continente africano, sono separate dal Marocco da alte recinzioni di filo spinato.
La Commissione Europea ha già risposto che non finanzierà la costruzione di muri, seppure i singoli Stati abbiano diritto di erigerli. La Commissione sta inoltre lavorando ad un nuovo patto su asilo e immigrazione, un pacchetto di misure volto a riformare l’attuale sistema di Dublino. Basandosi sull’esternalizzazione e la delocalizzazione della questione migratoria ai Paesi terzi, tale patto sarebbe, a parere della Commissione, una misura più efficace di controllo dei flussi migratori. Si tratta di una soluzione i cui termini devono però ancora essere concordati dalle istituzioni europee, processo che potrebbe protrarsi per diversi anni.
[di Valeria Casolaro]