Da poche ore la storica compagnia aerea italiana non esiste più. Ma ci rassicurano che continuerà a vivere. Eppure, non è tanto il primo volo di ieri mattina Linate-Bari recante lo stesso logo e colori di Alitalia sulla fusoliera (nonostante il nome dell’azienda ora sia ITA Airayws) e la procedura di cessione ancora da ultimare, a generare perplessità nell’opinione pubblica, quanto la mancanza di un’immagine chiara rispetto a cosa questa azienda potrà essere.
Tralasciando l’emorragia di posti di lavoro – si passa attualmente da 10.500 a 2.800 dipendenti – le condizioni di partenza sembrano non essere confacenti a nessuno dei target principali. Con solo 52 aerei disponibili attualmente (sempre quelli di Alitalia) la compagnia non può competere con i maggiori player stranieri sulle tratte europee e intercontinentali, né potrebbe assurgere al ruolo, più modesto ma significativo, di compagnia di bandiera. Cioè di azienda concepita principalmente per gli interessi della cittadinanza italiana, coprendo tratte che le realtà private più grandi non hanno interesse a garantire. Come infatti sarebbe ingenuo nutrire pregiudizi sulla natura d’ente pubblico della Newco, volta all’interesse pubblico, sarebbe anche sciocco non chiedersi: con queste premesse ha senso tenere in piedi una società?
La mala gestione, gli sperperi
Il travaglio di Alitalia, fino alla partenza esitante, non è certo casuale. I fasti del dopoguerra, con l’avvio nel 1947 come ente pubblico economico sono soltanto un ricordo. La realtà comincia a farsi più dura negli anni novanta, quando si assiste alla liberalizzazione dei traffici aerei. A quel punto entrano in gioco tante realtà pronte a fare concorrenza. Servono forse investimenti e accordi nel mercato che si tentano ma non arrivano. La situazione si complica ed ecco la prima parziale privatizzazione nel ’96 con Prodi, fino a quella completa tra il 2007 e il 2008 quando – per scongiurare la fusione con Air France (opzione che si presenterà più di una volta in questa storia) – su iniziativa di Berlusconi l’azienda viene affidata ai cosiddetti “Capitani Coraggiosi”, cordata guidata da Intesa Sanpaolo, allora nelle mani del banchiere Corrado Passera, guidata da Roberto Colaninno con nomi illustri dell’industria come Benetton, Riva, Ligresti, Marcegaglia e Caltagirone. La parte sana dell’azienda va a loro, quella cattiva sul groppone dello Stato che si accolla debiti e paga la cassa integrazione. I velivoli vengono ridotti da 175 a 109, le perdite cominciano a essere ingenti. Nel 2011 il buco di bilancio è di 69 milioni, nel 2012 di 280 milioni, addirittura 500 nel 2013. Il “meglio” della classe imprenditoriale italiana combina un disastro. Arriva Ethiad, che acquista il 49%. Gli arabi però non faranno che aumentare l’enorme passivo dopo aver ridotto le tratte brevi e infine escono. Eccoci dunque all’amministrazione straordinaria guidata dal Ministero dello sviluppo economico che spende centinaia di milioni per tenere in vita Alitalia con i prestiti ponte fino alla prossima (s)vendita. Si stima che negli ultimi quattro anni la società sia costata ai contribuenti 1,4 miliardi. Tutto denaro sprecato? Viene da dire di sì.
E adesso?
Come si legge su altre fonti giornalistiche, il numero di velivoli è programmato ad aumentare, arrivando a 78 nel 2022 fino a 105 nel 2025, che era il numero standard dell’Alitalia. Le destinazioni sono per ora 45 con 61 rotte, per arrivare nel 2025 a 79 destinazioni con 89 rotte. Ancora insufficiente, sia considerando le disponibilità di mezzi e rotte di colossi come Lufthansa, British Airways e Air-France, tutti molto sopra la casella dei 100. Stesso discorso per la questione del lungo raggio. ITA in effetti dovrebbe essere una realtà che punta sul medio raggio. Torna però a questo punto la questione dell’interesse pubblico, siccome sulle tratte domestiche ed europee non si riuscirebbe a fronteggiare la forza delle low cost come Ryanair, che ha in dotazione 300 aerei. E non fanno ben sperare neanche le parole dell’Ad di Ita Lazzerini, il quale nella conferenza stampa di stamane ha dichiarato che la nuova compagnia sarà molto attenta ai servizi per il mondo del business. Gli uomini d’affari potranno contare sulla centralità della rotta Roma-Milano-Linate. Su cui già correvano «23 aerei ad andare e 23 a tornare». Sempre Lazzerini ha detto che tra gli obiettivi futuri ci sono i voli internazionali, perché più redditizi
Volotea, piove sul bagnato
Notizia di queste ore è che la compagnia spagnola Volotea si è aggiudicata i collegamenti da e per la Sardegna, grazie a un’offerta a ribasso. Altra tegola per la nuova Alitalia che già ha tutti gli occhi puntati addosso. I vertici però avvertono che faranno ricorso al Tar. E alla domanda su Ryanair, rispondono in modo deciso ma forse poco sostanzioso: «loro fanno volare polli da batteria». Non si placa insomma il dubbio sul perché la vocazione principale non sia quella dei voli nazionali, tenendo conto dell’evidente svantaggio sulla dimensione dell’offerta europea, come riporta il sito dell’ente Eurocontrol e considerando che nel 2019 il traffico aereo interno misurò circa 64 milioni di passeggeri, un numero non irrilevante. La continuità territoriale è un punto irrisolto.
Punti interrogativi ineludibili. Che affondano le radici in un passato burrascoso. Dalla nascita come ente pubblico economico fino alle prime riorganizzazioni degli anni 90. Poi il passaggio ai “capitani coraggiosi” nel 2008. I bilanci sempre in perdita fino al giorno del battesimo di ITA, una realtà che ha bisogno di un’anima. Ed è proprio quando si mettono in dubbio l’identità e i valori di un progetto dedicato alla collettività che i guai peggiori si materializzano. Ma come detto in apertura, un’azienda pubblica non deve neppure esistere per forza. Se esiste, devo farlo con dei presupposti.
[di Giampiero Cinelli]
Grazie, Giampiero, per questo pezzo. Ne ho cominciata la lettura con curiosità e l’ho
conclusa con interesse e stimolo. Bel lavoro!
Un fallimento preannunciato. Lo stato continuerà a foraggiare a spese del contribuente esattamente come succede per l’ex fiat ora fca che prende soldi da un secolo a questa parte salvo pou trasferire il tutto all’estero e restituire nulla.
Più le aziende sono grandi e più è grande il magna magna.