Per la prima volta un detenuti di alto livello ha fornito un resoconto pubblico sulle sevizie subite dalla CIA durante gli anni della “guerra al terrorismo” statunitense. Majid Khan, prigioniero del centro di detenzione di Guantanamo Bay, ha reso un racconto dettagliato di quanto subito all’interno di una struttura clandestina della CIA all’interno di un tribunale statunitense. Le sevizie descritte riecheggiano in modo agghiacciante i racconti di altre vittime di tortura in tutto il mondo, rendendo sempre più evidente come il fenomeno sia complesso e difficile da circoscrivere, e quanto nemmeno i più democratici tra gli Stati Occidentali siano esenti da questi reati.
Khan è un detenuto di origini pakistane, recluso a Guantanamo perché affiliato di al-Quaeda, complice del bombardamento di un hotel a Giacarta e di altre attività terroristiche. Nel 2012 è stato accusato di cospirazione, omicidio e di aver fornito supporto materiale ai gruppi terroristici: la condanna iniziale, da 25 a 40 anni di reclusione, è stata notevolmente ridotta quando ha iniziato a collaborare fornendo importanti informazioni su al-Quaeda.
Khan racconta, tra le altre cose, di essere stati appeso nudo ad una trave per lunghi periodi, aver subito la tortura dell’annegamento ed essere spruzzato regolarmente con acqua gelata per essere tenuto sveglio per lunghi periodi. Per anni è stato selvaggiamente picchiato, stuprato e affamato. In una rapporto del 2014 della Commissione Intelligence del Senato degli Stati Uniti aveva accusato la CIA di essere andata ben oltre i propri limiti legali per ottenere informazioni durante gli interrogatori con i sospetti affiliati di al-Quaeda. Tuttavia mai prima d’ora era stato ascoltato pubblicamente un testimone di alto profilo come Khan. Le torture sono state perpetrate nonostante Khan abbia collaborato quasi da subito con i servizi segreti, fornendo dettagli di fondamentale importanza sulla rete terroristica di al-Quaeda.
Le torture descritte da Khan somigliano in maniera agghiacciante ai resoconti di altre decine di vittime in tutto il mondo. Nell’ottobre 2017 il Tribunale di Milano condanna Osman Matammud, aguzzino dei centri libici di Bani Walid e Sabrata, dopo aver ascoltato le testimonianze delle vittime che raccontano di aver subito pestaggi, stupri, di essere state “appesi a testa in giù con mani e piedi legati” e aver subito varie forme di torture con acqua ed elettricità. Solo pochi mesi prima, a luglio, l’Italia aveva approvato la sua prima legge contro la tortura. Ma non c’è bisogno di andare fino in Libia. I fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere vedevano la “tortura pluriaggravata” tra i reati contestati. E questo vale per quanto più volte riportato da Egitto, Cina, Corea del Nord e da moltissimi altri luoghi in tutto il mondo.
La retorica occidentale tende ad associare questi fatti agli stati autoritari, tendenzialmente associati con i Paesi del sud del mondo: probabilmente per questo la legislazione contro la tortura è arrivata molto tardi in molti Stati. Sempre più testimonianze raccontano con ferocia di un fenomeno globale, difficilmente arginabile entro confini di uno Stato o una certa forma politica. La Convenzione contro la tortura adottata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1984 (ratificata dall’Italia nel 1989) stabilisce come tratto caratterizzante l’intenzionalità nel creare danno. Eppure sempre più studi mostrano come non si conoscano appieno i meccanismi che portino i soggetti a diventare dei torturatori, e come l’attribuzione di “comandi venuti dall’alto” non sia esatta né sufficiente a spiegarne la natura. “Ancora non sappiamo come qualcuno diventi questo“, scrivono Austin e Bocco in uno studio titolato Becoming a torturer, ma “la globalità della tortura significa che il fatto di ‘diventare torturatori’ non possa essere spiegato nei soli termini della formazione, dell’indottrinamento o del fatto che la tortura sia stata ordinata da una catena di comando all’interno di un ‘cattivo’ regime politico“.
Si tratta di una figura, quella del torturatore, che la società e le scienze sociali non sono ancora state in grado di concettualizzare adeguatamente. Tuttavia gli stati Occidentali non possono considerarsi esenti da tali fenomeni, né trattarli come episodi isolati.
[di Valeria Casolaro]