Solitamente, quando le persone lasciano volontariamente il proprio lavoro in massa significa che l’economia è in fase positiva e stabile e che molti credono sia giusto cercare qualcosa di più gratificante e con compenso maggiore, decidendo di mettersi in gioco in un momento in cui le cose vanno generalmente bene. Il periodo pandemico ci consegna però una nuova tendenza: il lavoro viene lasciato in massa in un periodo economico affatto positivo e tutt’altro che stabile. Tale fenomeno è stato chiamato Great Resignation o, altrimenti, Big Quit.
Anthony Klotz, professore di management alla Mays Business School della Texas A & M University, è colui che ha coniato il termine osservando i dati in rapida crescita del tasso di abbandono del lavoro, i quali segnano un’inversione di tendenza rispetto agli altri momenti bui dell’economia. Per fare un esempio, durante la Grande Recessione il tasso di abbandono scese dal 2% all’1,3% a fronte di un tasso di assunzione sceso dal 3,7% al 2,8%. In altre parole, visto il periodo fortemente negativo dell’economia e dell’abbassamento dell’offerta di lavoro, meno persone erano disposte ad abbandonare volontariamente il proprio posto di lavoro. Oggi, invece, a fronte dei licenziamenti di massa dovuti all’effetto delle misure politiche adottate nel contrasto del Sars-Cov2 e dell’abbassamento dell’offerta lavorativa, è aumentato in maniera significativa il tasso di abbandono, fino a segnare livelli record. Quindi, le persone, nonostante l’economia sia in recessione lasciano il proprio lavoro.
C’entra la pandemia ma non solo
L’Economic Policy Institute, sulla base dei dati forniti dal Job Openings and Labor Turnover Survey (JOLTS), ha elaborato dei grafici esplicativi della situazione del mercato del lavoro negli Stati Uniti. Il settore informatico e quello edile hanno una forte discrepanza tra offerta e domanda di lavoro, con la prima molto più bassa della seconda. Vediamo poi che servizi educativi, trasporti e servizi pubblici, media, agenzie immobiliari, commercio al dettaglio, produzione beni durevoli e arte, intrattenimento e ricreazione, hanno una discrepanza minore e in alcuni casi un sostanziale equilibrio. La faccenda è ben diversa in settori come quello ricettivo, ristorazione, produzione beni non durevoli, finanza e assicurazioni, servizi professionali e aziendali, assistenza sanitaria, commercio all’ingrosso e settore pubblico: in questo caso la domanda risulta più bassa dell’offerta e, in alcuni casi, in maniera spropositata.
Da luglio ad ottobre scorso, negli USA, ogni mese, più di 4 milioni di persone hanno lasciato il proprio lavoro, facendo registrare livelli record in un momento storico di forte crisi economica, al contrario di quanto sia mai successo prima. Perché accade questo? Anthony Klotz, colui che ha osservato e dato nome al fenomeno, ha fornito una spiegazione che potremmo definire psico-sociale: lo shock pandemico ha portato le persone a riflettere sulla propria esistenza, su come spendono il proprio tempo e la qualità delle relazioni che lo riempiono. E negli USA, dato il ruolo centrale del lavoro come parte della costruzione della propria identità, «la crisi degli affari sembra aver prodotto una crisi esistenziale dei lavoratori». In più, spiega Klotz, pesa il “burnout”, ovvero l’accumulo enorme di stress cui le persone sono sottoposte.
Il capitalismo si è inceppato
Una ricerca di Brooks C. Holtom, Terence R. Mitchell, Thomas W. Lee, Edward J. Inderrieden, pubblicata nel 2005, spiega come lo shock del turnover avviene, ovvero come le persone tendono a lasciare il lavoro dopo aver sperimentato uno stato emotivo molto forte, il quale fa scattare l’auto-riflessione sulla soddisfazione lavorativa dell’individuo. Gli shock possono essere positivi, come la nascita di un figlio o l’ottenimento di un titolo, oppure negativi, come un divorzio o la perdita di un parente. Ma può accadere, ed è accaduto adesso, che lo shock sia causato da eventi di portata collettiva. Brooks Holtom, della Georgetown University, uno degli autori della citata ricerca spiega, oggi, che la natura universale della pandemia è una delle ragioni principali per cui così tanti stanno smettendo contemporaneamente: «La maggior parte delle persone non valuta la propria soddisfazione sul lavoro ogni 365 giorni in un anno. Questi shock di solito accadono in modo idiosincratico per le persone. Ma con la pandemia, è successo in massa».
Una nuova forma di lotta di classe
Sebbene sia chiaro e del tutto sensato ciò che Klotz e Holtom affermano, potrebbe risultare incompleta la spiegazione di quanto sta avvenendo se non si unisce all’analisi le condizioni economiche e sociali che il mercato del lavoro statunitense offriva, e offre, a milioni di persone. Un interessante disamina di Chris Hedges, su MintPress, affronta la questione e la inquadra come la “nuova guerra di classe americana”. Se certamente la pandemia può aver generato un auto-riflessione di massa delle persone circa la loro vita e il loro lavoro, gli elementi di tensione erano da tempo presenti e non aspettavano altro che un innesco che facesse superare il limite di rottura: scarsa retribuzione, condizioni di lavoro punitive e rischiose accomunano decine di milioni di lavoratori. Oltre agli svariati milioni di persone che hanno abbandonato il proprio lavoro, ce ne sono altri che si stanno mobilitando, in un Paese in cui solo il 9% della forza lavoro è sindacalizzata e con potere di contrattazione e salvaguardia dei diritti rispetto allo sfruttamento quasi nulli. «C’è un’ultima speranza per gli Stati Uniti. Non si trova nelle urne. Sta nell’organizzazione sindacale e negli scioperi dei lavoratori di Amazon, Starbucks, Uber, Lyft, John Deere, Kellogg, nello stabilimento Special Metals di Huntington, West Virginia, di proprietà di Berkshire Hathaway, della Northwest Carpenters Union, Kroger, degli insegnanti di Chicago, West Virginia, Oklahoma e Arizona, dei lavoratori dei fast-food, di centinaia di infermieri a Worcester, nel Massachusetts, e dei membri dell’International Alliance of Theatrical Stage Employees», afferma Hedges.
La disuguaglianza abissale
L’autore porta l’esempio di Kroger, società che gestisce circa 2.800 negozi con marchi diversi, tra cui Baker’s, City Market, Dillons, Food 4 Less, Foods Co., Fred Meyer, Fry’s, Gerbes, Jay C Food Store, King Soopers, Mariano’s, Metro Market, Pay-Less Super Markets, Pick’n Save, QFC, Ralphs, Ruler e Smith’s Food and Drugs, la quale nel 2020 ha fatto profitti per 4 miliardi di dollari e il cui CEO, Rodney McMullen, ha guadagnato oltre 22 milioni di dollari, rispetto ai 12 milioni guadagnati nel 2018. Un divario enorme e una diseguaglianza abissale rispetto allo stipendio annuo di un dipendente della stessa compagnia, ovvero circa 29.600 dollari annui. Un’analisi condotta sui lavoratori Kroger dimostra come essi, nonostante lavorino, siano al di sotto delle soglie di povertà e che non riescono ad avere sufficiente cibo per tutto il mese, oltre a lavorare in condizioni di lavoro non sicure. «Lavorare a tempo pieno per guadagnare un salario di sussistenza richiederebbe a Kroger di pagare $ 22 all’ora per un salario di sussistenza annuo totale di $ 45.760. I guadagni medi annuali dei lavoratori Kroger, tuttavia, sono pari a $ 29.655. Questo è $ 16.105 in meno del reddito annuale necessario per pagare le necessità di base richieste per il salario di sussistenza», è quanto riportato in un passaggio della ricerca.
Se dunque la pandemia è stata uno shock emotivo che ha portato all’auto-riflessione milioni di lavoratori, è altrettanto vero che le condizioni per agitazioni, scioperi, lotte sindacali e dimissioni di massa erano presenti da tempo e sempre più mal sopportate da coloro che le subivano.
L’interesse del WEF sul fenomeno
Del fenomeno della Great Resignation si è interessato anche il World Economic Forum (WEF) perché, sebbene sia un fenomeno molto accentuato negli Stati Uniti, trova riscontro anche in molti altri Paesi del mondo. La Confindustria delle multinazionali globali guidata da Klaus Schwab, sul proprio sito ha dedicato un articolo con intervista a Isabell Welpe, professoressa presso l’Università Tecnica di Monaco, in cui si tenta di fornire un quadro della situazione indagandone le cause ma soprattutto la possibilità di creare un altro modo di pensare al lavoro. «Mi aspetto che le organizzazioni diventino più commercializzate in futuro con le generazioni più giovani che non detengono più 6 posti di lavoro nella loro vita ma 6 posti di lavoro contemporaneamente, poiché i lavoratori offrono le loro competenze a diverse aziende in diversi progetti», afferma Welpe. Insomma le organizzazioni, specie i propri lavoratori, dovrebbero diventare ancora più flessibili di adesso. Le aziende dovrebbero quindi cogliere tale occasione per rivedere le proprie strutture al fine di trovare conveniente assecondare certe tendenze e richieste, ristrutturando così il mercato del lavoro.
Di fronte a chi decide di dare una svolta alla propria vita, lavoro compreso, e a coloro che hanno deciso di iniziare una lotta per la propria dignità di lavoratore, si para chi vuol sfruttare l’occasione per portare avanti i propri interessi e che utilizzerà – o tenterà di farlo – il fenomeno come strumento che concorra alla ristrutturazione dell’economia e della società umana, a danno degli stessi lavoratori e in favore dei soliti.
[di Michele Manfrin]
Sinceramente non ho le conoscenze per capire come uscire da questa situazione in cui i lavoratori sono sempre più schiacciati a favore di una piccola élite di oligopolisti. Probabilmente bisogna fare marcia indietro sulle regole della concorrenza internazionale delle merci perché va contro il benessere del pianeta e porta al dumping sul costo del lavoro. Come si faccia non lo so
Il fatto che molte persone in diverse parti del mondo stiano decidendo di lasciare il loro lavoro, anche per effetto dello “stress test” pandemico, ritengo sia da valutare positivamente non solo e non tanto come la fine ma come l’inizio di un nuovo cammino segnato da una crescente e più diffusa consapevolezza delle sfide che ci attendono a partire dalla resistenza e dall’opposizione ai programmi disumani definiti dal WEF
Un possibile scenario potrebbe essere la settimana lavorativa ridotta come gli altri stati, contando che uno stipendio medio di 1500 costa al datore di lavoro poco più del doppio si spererebbe di rendere efficenti le poche ma buone ore di lavoro della settimana “ridotta” (ai minimi termini) per permettere al lavoratore di immettere il proprio reddito nel sistema economico dietro la prestazione di un servizio o l’acquisto di un bene MOBILE e/o fungibile, mentre per i super ricchi (in costante diminuzione ma con un patrimonio in costante crescita) si prospetta l Acquisto di beni IMMOBILI e/o Infungibili, questo per sottolineare il crescente divario tra “caste sociali’
P.s ormai ci sono tanti lavori in Italia che pochi italiani vogliono fare, se non li facciamo noi spero di poterli assicurare a immigrati che li farebbero con onore e dignità
Che bell’articolo!!!
Complimenti
Immaginando un futuro in cui non si lavora più 8 ore al giorno, ma 6 o 7 (pause incluse), per che tipologia di lavoratore e mente a prova di burnout è pensata l’idea di avere al contempo 6 lavori / clienti diversi? Questo è disumanizzare ulteriormente. Un approccio del genere mi riporta vagamente al concetto di un imprenditore o comunque di libero professionista. Rendere il dipendente un’azienda, mettendolo in competizione con altri (magari da tutto il mondo, sai che bello competere con chi vive in un paese in via di sviluppo) e gravandolo del rischio di impresa. È un argomento molto vasto e complesso, ma gira e rigira peggiorano le condizioni del lavoratore mascherandole da “progresso”.