Ci era stato detto che la Brexit avrebbe causato un’apocalisse economica – che avrebbe fatto sprofondare il Regno Unito in una profonda recessione, fatto crollare le esportazioni, fatto esplodere la disoccupazione e ridotto i salari, e che in generale avrebbe comportato un calo strutturale negli standard di vita della popolazione. Alcuni pronosticavano addirittura carenze di cibo e medicinali, carestie, rivolte e colpi di Stato. Insomma, la Gran Bretagna, secondo la quasi totalità dei commentatori nostrani, era destinata a diventare uno Stato fallito degno delle peggiori distopie: un paria internazionale, tagliato fuori dal mondo civilizzato.
A un anno di distanza dal recesso formale della Gran Bretagna dall’UE, avvenuto il 31 gennaio 2020, nessuna di queste profezie si è materializzata. Non solo la Brexit non ha prodotto un disastro economico, ma anzi si è rivelata per molti versi un successo. Iniziamo con il parametro più ovvio – la crescita del PIL. Per il 2021 nel suo complesso, la crescita del PIL del Regno Unito è stata del 7,5%. Questo è il ritmo più forte di crescita dalla seconda guerra mondiale e il più alto del G7 – rispetto a una crescita del PIL sia nell’eurozona che nell’UE del 5%. Sia l’FMI che l’OCSE prevedono che nel 2022 il Regno Unito registrerà la crescita del PIL più veloce tra i paesi del G7.
Certo, tale ritmo di crescita rappresenta in parte un rimbalzo dalla recessione particolarmente profonda registrata nel 2020. Ma ciò non basta a spiegare la ripresa. A novembre, l’economia del Regno Unito ha superato per la prima volta i livelli pre-pandemia – una ripresa in linea con il Canada, più veloce dell’Italia e della Germania, ma più lenta del Giappone e degli Stati Uniti. In altre parole, il Regno Unito si è ripreso dal peggior shock economico della storia moderna alla pari delle altre economie avanzate e più rapidamente delle sue controparti europee. Questo è in gran parte il risultato del massiccio stimolo monetario e fiscale implementato dal governo del Regno Unito in risposta alla pandemia – pari all’incirca al 20% del PIL, uno dei più grandi pacchetti di sostegno economico al mondo.
Su quest’ultimo punto, vale la pena menzionare un’altra delle previsioni più comuni sulla Brexit – quella secondo cui essa avrebbe causato un collasso nel valore della sterlina. Bene, oggi la sterlina, dopo una serie di alti e bassi, registra il valore più alto rispetto alle altre valute di riferimento (euro, dollaro ecc.) dai tempi del referendum del 2016. Attualmente 1 sterline vale 1,35 dollari e 1,2 euro. Alla faccia del crollo. E questo nonostante il massiccio stimolo monetario e fiscale degli ultimi due anni – qualcosa che in sé, secondo l’ortodossia economica, avrebbe dovuto far crollare il valore della sterlina. Sì, l’inflazione sta lentamente aumentando, come dappertutto, ma questo è dovuto a fattori esogeni, a partire dall’aumento del prezzo dell’energia e dei problemi nelle catene di approvvigionamento globali.
Che dire della previsione secondo cui la Brexit avrebbe causato una massiccia disoccupazione, bassi salari e peggiori condizioni per i lavoratori? Bene, la disoccupazione del Regno Unito oggi è al 4% – significativamente inferiore a quella registrata ai tempi del referendum e vicino ai minimi storici degli anni Settanta. In breve, l’economia del Regno Unito è vicina alla piena occupazione. In effetti, il rapporto tra i disoccupati e posti vacanti ora è oggi al livello record di 1:1 – il che significa che, in teoria, c’è un posto di lavoro disponibile per quasi tutte le persone senza lavoro. Nel frattempo, la disoccupazione nella zona euro e dell’UE è rispettivamente del 7% e del 6,4% – con picchi del 10% o più in paesi come Italia, Spagna e Grecia. Anche la crescita nominale dei salari nel Regno Unito è al livello più alto degli ultimi 15 anni – sebbene tale crescita non sia sufficiente per stare al passo con l’inflazione.
Questa stretta del mercato del lavoro – che è chiaramente una grande notizia per i lavoratori del Regno Unito, in quanto rafforza il loro potere contrattuale – è il risultato di diversi fattori, compresa una riduzione dell’afflusso di lavoratori non qualificati dall’UE, per effetto della Brexit (mi rendo conto che non è politicamente corretto da dire, ma sì, l’offerta di manodopera influenza i salari).
Infine, ci era stato detto che la Brexit avrebbe distrutto il commercio britannico e tagliato il Paese fuori dal resto del mondo. In realtà, sia le esportazioni che le importazioni hanno continuato a crescere costantemente dopo il referendum. Entrambi hanno registrato un profondo crollo nel 2020 a causa della pandemia (come in tutti i paesi), ma ora stanno crescendo di nuovo – dell’8,4 e del 4,9% rispettivamente nel 2021. La vera notizia è che, per la prima volta dal 1997, le importazioni da paesi non-UE hanno superato quelle dai paesi della UE, il che rappresenta un problema per quest’ultima più che per il Regno Unito.
Nel frattempo, la quota di commercio con l’UE è diminuita leggermente dal referendum, ma questo ha più a che fare con una tendenza a lungo termine piuttosto che con la Brexit: la percentuale delle esportazioni totali britanniche destinate all’UE, infatti, è progressivamente diminuita negli ultimi 15-20 anni, con i mercati di sbocco extra-UE che sono cresciuti molto più velocemente di quelli intra-UE. Ad ogni modo, una cosa è certa: la Brexit non ha fatto sprofondare il Regno Unito nell’autarchia.
Qual è la morale di questa storia? Che la fortuna economica di un paese dipende in gran parte dalle sue politiche interne, non dal fatto di appartenere o meno ad aree di libero scambio o ad organizzazioni sovranazionali come l’UE. Un ovvio corollario di ciò è che più margine di manovra un paese ha, in termini politici ed economici, maggiori saranno le sue possibilità di successo. Questo è il motivo per cui organizzazioni come l’UE (per non parlare della zona euro), che limitano l’autonomia politica ed economica degli Stati membri, rappresentano un problema per le economie dei paesi che ne fanno parte. Secondo ogni parametro, il Regno Unito ha preso una decisione che si sta rivelando fruttuosa nell’abbandonare questa UE fatta di parametri, obblighi di bilancio e di concorrenza forzata tra lavoratori dei paesi membri.
[di Thomas Fazi]