venerdì 22 Novembre 2024

Le gang minorili come fenomeno sociale: intervista al sociologo Franco Prina

La cronaca giornalistica porta spesso all’attenzione dell’opinione pubblica i crimini perpetrati da gruppi di giovani identificati come baby gang. I reati violenti, soprattutto risse e rapine, sono spesso commessi per motivi a prima vista futili e fini a sé stessi. A Torino, in particolare, si assiste piuttosto di frequente a questi fenomeni, ma limitarsi a una trattazione semplicistica ed episodica rende difficile comprenderne la natura. Abbiamo approfondito il tema con Franco Prina, docente di Sociologia giuridica e della devianza presso l’Università di Torino e autore del libro Gang minorili.

All’interno del suo libro lei contesta fermamente il termine baby gang, mi può spiegare perché? 

La definizione di gang giovanili rimanda a gruppi di minorenni e giovani adulti con una struttura stabile e radicata sul territorio che gestiscono attività delinquenziali. In Italia questo tipo di realtà sono molto rare e di breve durata, soprattutto perché da noi molte attività illegali sono gestite dalle mafie. Ci sono stati dei gruppi di latinos un po’ più strutturati, ma non a Torino, dove c’è più un discorso di imitazione esteriore. Qui esistono bande di strada, ma non si tratta di gruppi organizzati con una gerarchia, un leader, riti di ingresso e una razionalità applicata alla gestione di attività illegali. Non sono baby, perché parliamo di adolescenti e giovani adulti tra i 16 e i 19 anni, e non sono gang perché non hanno quel tipo di organizzazione strutturata. Anche parlare di “abbassamento dell’età di chi compie i reati” è inesatto: è molto raro che ragazzini di 14-15 anni siano coinvolti in questo tipo di situazioni.

Che composizione hanno questi gruppi? Sono per lo più stranieri o vi sono anche italiani? 

Nella realtà torinese abbiamo entrambe le cose. Le periferie di Torino sono un mix nel quale convivono fianco a fianco famiglie straniere e italiane che condividono condizioni di precarietà economica e difficoltà lavorativa. I figli di queste famiglie hanno difficoltà a integrarsi e a scuola, e genitori che faticano a svolgere il loro ruolo. Ovviamente chi proviene da altri Paesi ha un surplus di difficoltà: il ricongiunto in età adolescenziale che è diviso tra due mondi, le seconde generazioni che non si vedono riconoscere i propri diritti, chi è soggetto a discriminazioni razziali… Vi possono essere delle similitudini di condizioni in quanto adolescenti e giovani che cercano una prospettiva, ma qualcuno ha qualche difficoltà in più.

Da quali quartieri di Torino provengono questi ragazzi?

Da tutte quelle zone dove c’è un insediamento di case di minore pregio e minore costo, dove si sono insediati gli immigrati anche per effetto delle catene migratorie. Per lo più i quartieri di Barriera di Milano, Aurora e un po’ San Salvario e alcune città dell’area metropolitana, come Nichelino. Le dinamiche sono le stesse di quando qui si insediarono gli immigrati provenienti dal Sud, con la differenza che loro si stanziarono prima nella zona della stazione e del centro e poi, quando furono costruiti i quartieri perché aumentava il bisogno di manodopera, a Falchera, Vallette, ma anche via Artom, Mirafiori Sud, Mirafiori Nord eccetera.

Quali sono le tipologie di reato che vengono commesse da questi gruppi?

I reati sono in genere di tipo predatorio, ovvero io ti vengo a portar via delle cose che non mi posso permettere: il ragazzo che parte da Barriera di Milano per andare in piazza Castello, trovarsi con altri e rubare (spesso in maniera non programmata) un bel giubbotto o l’iPhone di qualcuno. Questi reati sono spesso connotati da caratteristiche di tipo espressivo: sto esprimendo la mia rabbia, il mio poterti umiliare perché tu hai ciò che io non ho, vivi come vorrei vivere io. I reati predatori sono ispirati da un senso comune e valori molto diffusi: non consideriamo mai che l’idea di portarsi via l’ultimo iPhone gliel’ha ispirata il mondo degli adulti, la cultura consumistica più diffusa, per la quale sei qualcuno solo se possiedi quegli oggetti. Quando non hai gli strumenti culturali per difenderti da questa pressione accadono queste cose. I ragazzi, da questo punto di vista, sono devianti solo nei modi, non negli obiettivi. Anche le risse sono un reato tipicamente espressivo: riflettono un bisogno di affermazione, di appartenenza.

Che ruolo giocano i social media nel diffondersi del fenomeno? 

Molti di questi comportamenti possono essere motivati dagli scambi sui social, o possono essere pensati come qualcosa di rilevante perché dà visibilità, consente di farsi vedere, di mostrarsi. Quando i gruppi di Barriera sono andati a Nichelino per picchiarsi con le bande locali, è stata una risposta a una comunicazione via social che ha a che fare con le offese, l’onore e la propria affermazione. L’approvazione sui social oggi è estremamente importante, al punto da arrivare al paradosso di filmarsi mentre si compiono i reati. È di una ingenuità disarmante, perché la polizia vede i video e le persone sono facilmente reperite. Mostrarsi, pur essendo controproducente, è fondamentale. Da questo punto di vista giornali e televisioni, nel raccontare le gesta di questi gruppi, contribuiscono a produrre effetti di rinforzo ed emulativi, perché diventa motivo di vanto il fatto di essere finiti sul notiziario. Il problema non è raccontare i casi di cronaca, ma insistere sulla cronaca senza scavare e cercare di capire.

Che tipo di difficoltà e disagio vivono i giovani che si trovano in queste situazioni?

Si tratta di ragazzi che vivono il tempo presente come tutti gli altri, che presenta delle difficoltà per chi sta crescendo o affrancandosi dalla famiglia. Il lockdown di questi due anni ha compresso la socialità di tutti questi ragazzi, privandoli degli spazi in cui si incontravano. E appena sono stati liberati sono accaduti fatti come le risse tra i gruppi di Barriera e Nichelino. Il bisogno adolescenziale di sfidare il mondo non è nato oggi, né ieri e neanche dieci anni fa, è sempre esistito. Le problematiche espresse sono sempre le stesse: crescere, diventare autonomi, avere un’identità, trasgredire, sfidare gli adulti, sfidare le istituzioni. Essere in banda risponde a bisogni quali lo stare insieme, il fare gruppo, esprimere coraggio e sfida, confrontarsi con gli altri, necessità che purtroppo poche altre proposte aggregative soddisfano. Vi è poi il bisogno di identità, in particolar modo per chi proviene da un Paese straniero. I ricongiunti, cresciuti in un altro Paese e giunti adolescenti in Italia, vivono con particolare intensità questo problema. A questo si accompagna il bisogno di riconoscimento, di sentirsi utili e importanti per gli altri, di sentirsi coraggiosi, di sfidare eccetera. Naturalmente più gli adulti e le istituzioni educative hanno difficoltà a esercitare il ruolo educativo e normativo, più queste cose avvengono in modo estremo ed evidente.

Quindi c’è una certa difficoltà, da parte di scuola e famiglie, a gestire il fenomeno.

Io credo che sia utile spostare il punto di vista dai ragazzi a chi sta loro intorno: è necessario parlare del disagio degli adulti, delle famiglie che devono affrontare problemi come la disoccupazione, che hanno fatica ad essere normative, di insegnanti che si trovano a dover governare gruppi di ragazzi numerosi avendo pochi strumenti. Finché la scuola veniva pensata come luogo in cui si forniva istruzione gli insegnati sapevano cosa fare. Oggi sempre di più devono confrontarsi con le difficoltà dei ragazzi e delle famiglie e ciò richiede competenze che spesso non hanno. Bisogna aiutare molto gli adulti e bisogna creare opportunità di rispondere ai bisogni dei giovani in maniera costruttiva, favorendo l’accompagnamento e la prevenzione prima ancora della risposta repressiva e punitiva.

Quali sono le difficoltà principali delle famiglie? 

Si tratta delle difficoltà generali degli adulti che esercitano la funzione genitoriale, ma che sono maggiori per le persone che sono arrivate da poco in Italia, che hanno difficoltà a comprendere il funzionamento delle istituzioni, a interloquire e via dicendo. Nel caso dei giovani partiti da Torino per andare a Milano a Capodanno e arrestati per violenze sessuali, le famiglie si sono dette del tutto ignare delle problematiche esistenti. Vi è l’idea che il fatto di essere riusciti ad arrivare in Italia costituisca una prospettiva positiva di per sè.

Il disagio di questi ragazzi si esprime in altro modo, oltre che con la violenza?

Oltre allo sfogo violento verso gli estranei o verso le istituzioni, come è accaduto nel caso dei gruppi che sono andati a spaccare le vetrine dei negozi in centro, vi è certo una forma di disagio che si ripiega verso sé stessi. Questo si manifesta nella chiusura del legame solo attraverso i social o con la realtà virtuale, l’anoressia e altre problematiche alimentari. In un periodo come quello del lockdown molti hanno manifestato una sofferenza fisica, ma è stato difficile intercettarli perché erano chiusi in casa.

Vengono fatti interventi a supporto delle famiglie?

Molto poco: sia sul piano educativo che del supporto e nel costruire un rapporto sinergico con la scuola. A Torino vi sono alcune educative di strada che si occupano sia dei giovani che delle famiglie, ma sono poche.

Che tipo di interventi vengono messi in campo con i ragazzi?

A Torino vi sono educative di strada e di territorio che vanno a incontrare i gruppi che si ritrovano ai giardinetti o in alcune strade e piazze. È importante che i giovani incontrino figure adulte non giudicanti, consapevoli, professionalmente preparate ad un dialogo, che offrano loro opportunità di cui essere protagonisti: attività sportive, di cura dell’ambiente, di fare teatro o musica. Penso all’Asai, alle educative di strada del gruppo Abele, alle educative di territorio di Save the Children piuttosto che del comune di Torino. L’oratorio San Luigi per molto tempo ha mandato al Parco del Valentino e dei Murazzi educatori che incontravano i ragazzi che spacciavano e proponendo negli spazi del Valentino la possibilità di fare doposcuola, sport e attività ludiche. Quello che manca a Torino è un maggiore investimento da parte dell’amministrazione comunale, perché negli anni queste iniziative sono state gestite prevalentemente dal privato sociale. Molti di questi gruppi sono sostenuti dalla Compagnia San Paolo, come il progetto Nomis, del quale sono referente scientifico, che da anni raggruppa molte di queste educative per lavorare insieme e fare rete. È necessaria una maggiore assunzione di responsabilità da parte del Comune: per sostenere queste attività e perché possano affiancare anche le famiglie. Significherebbe potenziare la prevenzione.

Quali sono a suo parere gli interventi necessari?

Investire sui servizi sociali di territorio, che in questi anni sono stati depauperati in termini di personale e risorse, è fondamentale. Il Pnrr sembra far ripartire le assunzioni e aumentare le risorse, che vuol dire potenziare la risposta preventiva e le misure alternative al carcere. Rafforzando le educative di strada e di territorio, i servizi sociali e di comunità, gli psicologi che escano dalle NPI [Neuropsichiatrie Infantili, ndr] e vadano nelle scuole a intercettare il disagio psichico di tanti adolescenti, gli etnopsichiatri ed etnopsicologi che hanno un’attenzione particolare per i giovani di origine straniera e le famiglie. Direi che c’è molto da fare, motivo per cui gli operatori devono essere preparati e in numero sufficiente per poter mettere in atto un lavoro di intercettazione e prevenzione del disagio.

[di Valeria Casolaro]

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