Ogni anno 4,8 milioni di asini vengono macellati esclusivamente per la loro pelle: è questa la stima contenuta all’interno di un rapporto del The Donkey Sanctuary, un’organizzazione britannica che si occupa del benessere dei somari. Dal documento in questione, che nello specifico ha fatto luce per la prima volta sul commercio illegale online delle pelli d’asino, è emerso che a giocare un ruolo chiave in tal senso è il web, con i social media che sostanzialmente consentono di tenere in piedi il mercato grazie ai loro algoritmi con cui “inavvertitamente ma efficacemente mettono in contatto gli acquirenti con i commercianti illegali”. Un commercio particolarmente florido in Cina, dove le pelli entrano tra gli elementi utilizzati ai fini della medicina tradizionale, alimentando un commercio non solo illegale ma altresì fonte di sofferenza per gli animali, che vivono e vengono uccisi in condizioni brutali.
“Molti asini sperimentano una sofferenza estrema a causa dei commercianti: sono spesso trasportati su lunghe distanze, in camion o a piedi, senza cibo, acqua e riposo adeguati. Vengono poi trattenuti, spesso per giorni e giorni, nuovamente senza cibo o acqua adeguati, prima di essere massacrati in condizioni brutali e poco igieniche. Altri vengono rubati ai loro proprietari durante la notte e sono spietatamente macellati prima che la loro pelle venga rimossa e le carcasse lasciate marcire”. È questo ciò che si legge all’interno del rapporto, nel quale si parla altresì del fatto che lo stato di salute degli asini macellati sia sconosciuto e che ciò comporti “rischi inerenti alla biosicurezza, con possibili conseguenze significative a livello globale”. Infatti, la “lavorazione molto limitata” delle pelli di tali animali fa sì che chiunque entri in contatto con le stesse sia “potenzialmente a rischio di contrarre una zoonosi”.
Venendo poi alla domanda del prodotto, dal documento si apprende che le pelli d’asino siano molto richieste in Cina, dove vengono esportate per far fronte al bisogno di “ejiao”. Si tratta di un tipico prodotto utilizzato nella medicina tradizionale cinese, una sorta di gelatina che si ritiene sia in grado di curare tutta una serie di disturbi. Per ottenerla, però, c’è appunto bisogno della pelle d’asino, la quale viene prontamente messa a disposizione dai commercianti in maniera illegale grazie ai social media, che permettono ad essi di aggirare facilmente le leggi dei propri paesi di appartenenza.
La pelle d’asino riesce dunque così ad essere venduta dai trafficanti che vivono in paesi in cui il commercio in questione è vietato, tra cui Nigeria, Ghana e Kenya, dove è stata rilevata un’importante offerta a riguardo. Nel gennaio 2021 – si legge infatti nel rapporto – una società con sede in Kenya affermava di avere “2000 pezzi di pelle/pelli d’asino disponibili per la vendita” e di poterli spedire “ovunque nel mondo”. Interessante notare che tale annuncio era stato fatto grazie a Facebook, con la società keniana che aveva diffuso tali informazioni pubblicando un post sulla sua pagina. Il ruolo giocato dal social di Mark Zuckerberg, però, appare alquanto inaspettato dato che proprio Facebook nel 2018 aveva co-fondato, insieme ad altre aziende ed organizzazioni come il Wwf, la “Coalition to End Wildlife Trafficking Online”: una coalizione lanciata con l’obiettivo di “porre fine al traffico di animali selvatici online”, che evidentemente non viene ancora perseguito in maniera impeccabile.
Oltre a ciò, dal rapporto si apprende altresì che il commercio delle pelli d’asino sia collegato a quello illegale di animali selvatici. Nel documento, infatti, vengono citati i risultati di una ricerca con cui sono stati identificati 382 commercianti che vendevano pelli d’asino su siti di e-commerce, da cui è emerso che quasi il 20% di essi vendevano anche prodotti connessi alla fauna selvatica, tra cui parti di specie animali in via di estinzione come gli elefanti. «Questo è importante perché rivela come i clienti che acquistano pelli d’asino possono facilmente imbattersi in altri prodotti in vendita insieme a queste pelli, contribuendo potenzialmente alla crisi della biodiversità in continuo peggioramento», ha affermato a tal proposito il coautore della ricerca Ewan Macdonald.
[di Raffaele De Luca]