Nel fondo italiano per la bonifica dell’amianto ci sono 8 milioni di euro inutilizzati da 7 anni. Il fondo, istituito con l’articolo 56 della legge 221 del 2015, è nato per facilitare la rimozione dell’amianto dagli edifici pubblici. La dotazione complessiva è stata di circa 12 milioni di euro e l’avremmo dovuta utilizzare tra il 2016 e il 2018. Tuttavia, sono trascorsi sette anni dalla scadenza e solo il 30% dei fondi è stato speso. Sono invece passati trent’anni dall’approvazione della legge che in Italia ha vietato l’estrazione, l’importazione, la produzione e la commercializzazione di amianto e di prodotti che lo contengono. Ad oggi, però, solo il 25% di quello installato è stato rimosso. Continuando con questi ritmi – rende noto un’inchiesta di Legambiente – per liberarsene del tutto serviranno altri 75 anni.
A mettere nero su bianco questi ultimi dati è stato però il Rapporto del registro nazionale dei mesoteliomi, dal quale è emerso anche che degli oltre 31 mila casi di mesotelioma pleurico registrati dal 1993 al 2018, l’80% è riconducibile proprio all’esposizione alle fibre d’amianto. Ancor più crudi poi i numeri dell’Osservatorio nazionale amianto che per il 2020, tenendo conto anche delle altre patologie legate all’esposizione delle fibre, parlano di 7mila decessi solo nel Bel Paese. Dati che tuttavia non dovrebbero sorprendere considerando che, ancora oggi, sono almeno 50.744 i solo edifici pubblici censiti con amianto sui tetti. Ciononostante si continua ad agire come se non fossimo di fronte ad un’emergenza. Gli avvisi attuativi della Legge precedentemente citata, ad esempio, pur dando priorità alle zone sensibili (come scuole, parchi gioco, ospedali, impianti sportivi), hanno portato all’assegnazione di appena 636 progetti di bonifica: 1.318.113 euro per 242 interventi nel 2017, 853.223 per 140 interventi nel 2019, 417.345 euro per 63 interventi nel 2021 e 1.188.670 euro per 191 interventi stabiliti dall’ultima graduatoria dello scorso febbraio.
Le cause di una così allarmante inazione, per quanto ingiustificabile, potrebbero essere diverse. Prima fra tutte, attorno alla quale ruotano tutte le altre possibili motivazioni, gli esorbitanti costi richiesti per bonificare i siti. Inoltre, specie nei piccoli comuni, si potrebbe ipotizzare una carenza di personale competente. Mentre, più in generale, è verosimile che molti rallentamenti dipendano da una carenza di discariche di prossimità idonee a smaltire in sicurezza i rifiuti contenenti amianto. Senza questi impianti disponibili sul territorio è inevitabile ricorrere all’export dei rifiuti contaminati, come frequentemente avviene – riporta un’analisi del Centro studi enti locali – aumentando però vertiginosamente i costi ambientali ed economici dell’operazione. Il risultato? Non si realizza nessuna bonifica. Tuttavia, sarebbe interessante capire come mai si è scelto di non approfittare dei cospicui fondi di ripresa. «È inaccettabile – non a caso precisa Andrea Minutolo di Legambiente – che l’amianto sia il grande escluso del Pnrr».
[di Simone Valeri]
Nel mio Comune di riferimento per poter accedere al servizio, a prezzo agevolato per lo smaltimento di una piccola cisterna da 500 lt, mi è stata chiesta la produzione di documenti tra i quali un disegno/pianta del sito dove era ubicata la cisterna (normale casa, abitazione) e una dichiarazione/relazione sul servizio richiesto, redatti da un professionista. Morale della favola: per lo smaltimento di manufatti così piccoli (che è la maggior parte dei casi per i cittadini) non c’è nessuna convenienza economica. Infatti il costo è pari (se non maggiore) a quello da sostenere rivolgendosi direttamente ad una ditta privata. Ultra morale della favola: non c’è incentivo ad effettuare l’operazione e i cittadini lasciano perdere. Va bene salvare l’ambiente, ma in una famiglia le necessità sono altre.