Allo scopo di aumentare la produzione del cosiddetto petrolio di scisto, gli Stati Uniti hanno scelto di premere l’acceleratore su una tecnica nota come refracking. Anziché creare nuovi pozzi, si induce una seconda ‘esplosione’ ad alta pressione in quelli già sfruttati al fine di estrarre dalle rocce quanto più petrolio possibile. Si stima che il ricorso a questa sollecitazione aggiuntiva possa essere fino al 40% più economico rispetto alla creazione di nuovi siti d’estrazione. Quanto all’impatto ambientale, non si sa molto. Certo è che, in questo senso, il fracking in sé non è un’operazione trascurabile. Ma ora, poco importa. Il greggio oscilla intorno ai 100 dollari al barile, l’occasione di guadagnare tanto senza fare grandi investimenti è quindi probabilmente troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Tanto più alla luce delle recenti tensioni tra l’industria petrolifera e la Casa Bianca la quale, riluttante a promuovere nuovi investimenti fossili, è sotto pressione per contenere i prezzi record del carburante.
Ma in cosa consiste il refracking? Innanzitutto, va precisato che non si tratta di una tecnica nuova. L’operazione, adottata dall’industria fossile da oltre un decennio, implica una seconda fratturazione idraulica in giacimenti rocciosi già sfruttati e, quindi, già sottoposti ad un primo fracking: un’attività estrattiva finalizzata a ricavare petrolio e gas di scisto da rocce argillose nel sottosuolo. La tecnica consiste in una prima perforazione finalizzata a raggiungere i giacimenti, nei quali, successivamente, si inietta ad alta pressione una miscela di acqua, sabbia e prodotti chimici di sintesi allo scopo di facilitare la fuoriuscita degli idrocarburi. Alcuni pozzi, e questo è il caso del refracking, vengono quindi nuovamente fratturati per consentire l’estrazione di fonti fossili da un secondo strato geologico. Il processo può anche riaprire fratture che potrebbero essersi chiuse nel tempo e, per stimolare un’ulteriore produzione, un pozzo può essere rifratturato ogni uno o due anni.
Come anticipato, dell’impatto ambientale di una seconda fratturazione si sa poco e niente. Tuttavia, essendo note le conseguenze ecologiche di una singola operazione di fracking, non è azzardato affermare che degli interventi analoghi successivi amplifichino di molto gli impatti dei primi. Ad oggi, le criticità legate a queste pratiche sono almeno tre. In primo luogo, alla luce delle grandi quantità di acqua richieste, va citato l’enorme spreco idrico: basti pensare che ogni pozzo avrebbe bisogno tra i 100 mila e i 27 milioni di litri d’acqua. Segue la potenziale contaminazione delle falde acquifere e del suolo, poiché gran parte del liquido iniettato, contenente in media 14 differenti additivi chimici, non riemerge. Inoltre – come dimostrato da diversi studi – le operazioni di fratturazione possono perfino indurre scosse sismiche lievi e moderate. Secondo altri esperti, invece, ricorrere al refracking eviterebbe tutta una serie di impatti legati alla creazione di nuovi siti estrattivi, come ad esempio nuovo consumo di suolo. Un vantaggio incontrovertibile se solo, parallelamente, non si cercassero ulteriori giacimenti da sfruttare. Senza contare poi che l’operazione, ad ogni modo, implica l’impiego di grandi quantità di metano: un gas serra 25 volte più potente dell’anidride carbonica, nonché dannoso per la qualità dell’aria nelle vicinanze dei pozzi perforati.
[di Simone Valeri]