venerdì 22 Novembre 2024

Prorogata la tregua: dopo 8 anni lo Yemen spera nella pace

L’inviato delle Nazioni Unite (UN), Hans Grundberg ha annunciato lo scorso martedì che i ribelli Huthi e il governo internazionalmente riconosciuto dello Yemen hanno trovato un accordo per prolungare il cessate il fuoco di altri due mesi. Accordo che include inoltre, l’impegno dei due belligeranti a tenere ulteriori negoziati, nelle prossime settimane, per arrivare ad una tregua prolungata. Una nota positiva, dato il contesto globale attuale di crescente instabilità, che rafforza le speranze di pace per un Paese devastato da un conflitto interno, ma fomentato da potenze estere, che infiamma il territorio da ormai otto anni.

Al momento, la tregua seppur con alcuni incidenti sta reggendo, dopo essere stata prorogata una prima volta i primi di giugno. Di certo coloro che si augurano che la tregua possa reggere sono innanzitutto gli yemeniti, che da troppi anni si trovano a dover far fronte ad una guerra che ha portato il paese sul lastrico. Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, nell’ultimo mese si sono registrati significativi miglioramenti, ad esempio è diminuito del 60% il numero dei feriti e del 50% quello degli sfollati, inoltre 26 navi cisterna cariche di carburante hanno potuto raggiungere il porto di Hodeida. In questi anni di guerra gli effetti sulla popolazione civile sono stati devastanti, oltre 370.000 morti e quasi 16 milioni costretti a vivere in condizioni di estrema povertà. A questo va aggiunto come anche il supporto umanitario da parte delle organizzazioni internazionali scarseggi, per mancanza di fondi.

La guerra in Yemen viene combattuta da due attori principali, il governo internazionalmente riconosciuto dell’ex presidente Mansour Hadi e i ribelli di Ansar Allah, noti anche come Huthi, dal nome della tribù originaria del nord dello Yemen da cui provengono molti dei suoi leader. Mansour Hadi, sali in carica nel 2011, ad interim, per sostituire il presidente Ali Abdullah Saleh (presidente dello Yemen dal 1990 al 2012) costretto a dimettersi dopo essere rimasto ferito durante un assalto al palazzo presidenziale nel corso delle proteste di massa che interessarono il paese durante le cosiddette “primavere arabe”. Hadi venne poi eletto nel 2012 con il compito di guidare un governo di transizione per due anni, elezione in cui lui era l’unico candidato e che venne boicottata sia dagli Huthi che dal movimento secessionista del sud, Al-Hirak. Nel 2014, il mandato di Hadi venne prolungato di un anno fino al 2015, quando, sfruttando le proteste per l’aumento del costo del carburante, gli Huthi conquistando la capitale Sana’a lo costrinsero a rassegnare le dimissioni e a fuggire in esilio in Arabia Saudita. La presa del potere da parte degli Huthi, movimento principalmente composto da sciiti seguaci dello zaydismo, portò all’intervento militare da parte di una coalizione composta da Arabia Saudita, Emirati Arabi e parte dell’esercito regolare yemenita ancora fedele al governo di Hadi. Una questione interna per lo Yemen divenne ben presto una guerra per procura tra diversi attori internazionali, tra cui l’Iran. La coalizione di Hadi, grazie al peso politico della monarchia saudita, riuscì ad ottenere l’appoggio di Stati Uniti, Francia e Regno Unito che non esitarono a fornire armi a Riad.

La cause della guerra

Di certo una parte importante in questo conflitto è imputabile alla questione religiosa, l’Arabia Saudita, a maggioranza sunnita, temeva la crescita del movimento Huthi, sciita, e con forti legami con il rivale Iran. Ma come quasi sempre succede nelle guerre moderne, anche gli interessi economici ricoprono un ruolo fondamentale e spesso quella religiosa somiglia più a un’arma per fomentare il caos. Petrolio e controllo dello Stretto di Bab el-Mandeb – che lega il Mar Arabico allo Stretto di Suez -, sono gli altri due fattori chiave di questa guerra. Non a caso i primi obiettivi militari della coalizione sono stati la cattura dei pozzi di petrolio per far sì che non cadessero in mani agli Huthi e il controllo delle acque territoriali del paese per evitare che lo stretto, da cui passano milioni di merci e tonnellate di greggio ogni giorno, potesse venir utilizzato come arma di ricatto.

I bombardamenti indiscriminati da parte della coalizione, rifornita di armamenti dall’occidente, hanno preso di mira in tante occasioni anche obiettivi civili e utilizzato armi proibite come le bombe a grappolo. Le zone sotto il controllo degli Huthi (dove vive il 70% della popolazione dello Yemen), sono costantemente soggette ad un blocco da parte delle truppe della coalizione, in modo da limitare i rifornimenti di cibo e carburante. Denunce, rimaste inascoltate, sono arrivate già nel 2019, come quella fatta da Save the Children, secondo cui si sarebbe utilizzata la fame come arma di guerra. Anche se probabilmente, in Yemen, la questione più spinosa e imbarazzante per l’Occidente sono i legami tra le truppe della coalizione e i gruppi terroristi come l’al-Qaeda nella penisola araba (Aqap). Sarebbero infatti numerose le prove secondo esisterebbero stretti legami tra alti funzionari del governo Hadi e figure di spicco di questi gruppi. Il tutto nel silenzio della comunità internazionale, ennesima conferma, di come troppo spesso, i diritti umani vengano utilizzati dall’Occidente come mero strumento di pressione verso i paesi “nemici” e non come valore assoluto, dato che se gli abusi sono commessi dai paesi “amici”, ricchi di petrolio, si finisce regolarmente a guardare dall’altra parte.

Lo scenario internazionale odierno potrebbe rappresentare una speranza per arrivare, se non a una pace, quantomeno ad un cessate il fuoco duraturo in Yemen. Lo scorso 7 aprile, Hadi, ha trasferito il potere in mano a un nuovo consiglio presidenziale presieduto da Rashid al-Alimi, con lo scopo di negoziare una tregua con Ansar Allah. Il nuovo accordo è arrivato anche grazie alle pressioni verso l’Arabia Saudita degli Stati Uniti e all’opera di negoziazione sugli Huthi dell’Oman (con il beneplacito dell’Iran). Sia Washington che Teheran hanno al momento interessi prioritari diversi rispetto allo Yemen, Russia e Cina da una parte e la ripresa dei negoziati sul nucleare dall’altra.

[di Enrico Phelipon]

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