Pochi giorni fa è entrato in vigore il regolamento europeo che prevede che i Paesi membri debbano raggiungere un risparmio sul consumo di gas pari al 15% per fare fronte alla riduzione delle forniture russe e al relativo aumento dei prezzi. Ciò sta spingendo molti stati a compensare i volumi mancanti di metano con il ritorno all’uso del carbone, a dispetto degli obiettivi della transizione energetica, sostenuti e promossi con forza dalla Commissione europea e dal governo Draghi che ne avevano fatto il loro cavallo di battaglia politico. Non fa eccezione l’Italia, dove sono 7 le centrali a carbone pronte a riaprire i battenti in barba ai tanto decantati obiettivi climatici.
Il programma di riduzione energetica, pubblicato in Gazzetta europea, ha valenza retroattiva dal primo di agosto e dovrebbe durare fino al 31 marzo 2023: il piano, per ora volontario, ha l’obiettivo di risparmiare tra i 35 e i 45 miliardi di metri cubi di gas e diventerebbe obbligatorio nel caso in cui il Consiglio UE decreti l’allerta energetica e comunque solo se almeno 15 paesi rappresentanti il 65% della popolazione europea danno il loro assenso. Per l’Italia, inoltre, è previsto un taglio dei consumi solo del 7% – vale a dire di 4 miliardi di metri cubi su un totale di 55 – in attesa di monitorare l’evolversi della situazione.
La riduzione del gas di Mosca e la forte incertezza sulla sicurezza energetica hanno spinto molti Stati – Italia compresa – a diversificare le fonti di approvvigionamento, scatenando la corsa alla ricerca di nuovi fornitori di combustibili fossili soprattutto in Africa. L’Italia, ad esempio, ha rinsaldato i suoi rapporti diplomatici, commerciali ed energetici con l’Algeria e con la principale compagnia energetica del Paese nordafricano, la Sonatrach, sebbene quest’ultima abbia una solida partnership proprio con Gazprom e Algeri sia uno dei principali alleati della Russia nel continente. Tuttavia, in buona parte dei Paesi europei le sostituzioni di gas russo con importazioni alternative paiono non essere sufficienti a compensare le quote di metano provenienti da Mosca: così molti Stati europei hanno deciso di riattivare le centrali a carbone o di aumentarne le importazioni.
Sebbene il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, continui a mostrarsi ottimista sulla situazione energetica italiana per il prossimo autunno-inverno, il piano di Roma per risparmiare gas, coprendo così i circa cinque miliardi di metri cubi mancanti, prevede – oltre ad un’accelerazione sulle rinnovabili e l’aumento della capacità dei rigassificatori – anche il rinvio della chiusura delle centrali a carbone esistenti. Nel nostro Paese, quelle ancora attive sono sette e producono meno del 5% dell’energia necessaria al fabbisogno energetico del Belpaese. Una percentuale molto bassa, specie se paragonata al 30% del fabbisogno che le centrali a carbone soddisfano in Germania. Il ministro Cingolani ha dichiarato che «utilizzeremo le nostre centrali a carbone ancora in funzione un po’ più di quello che avevamo previsto, quindi fra 12 e 24 mesi, indipendentemente dalla situazione», aggiungendo che «l’impatto ambientale di questo utilizzo è ampiamente compensato dalla crescita delle rinnovabili». Inoltre, il piano di risparmio presentato da Cingolani prevede di abbassare i riscaldamenti negli uffici pubblici e nelle abitazioni private di un grado il prossimo inverno e di ridurre l’accensione degli impianti di un’ora al giorno.
Tra i Paesi europei che paiono intenzionati a fare ritorno al carbone in misura nettamente superiore all’Italia, ci sono la Germania, la Polonia e la Repubblica Ceca, Paesi in cui è concentrato il maggior numero di centrali fossili. In particolare, con il divieto di importare il combustibile dalla Russia, entrato in vigore nella giornata di ieri 10 agosto, il rischio della riattivazione delle centrali è sempre più concreto. In Germania, già nei primi cinque mesi dell’anno l’elettricità prodotta dal carbone è aumentata del 20% secondo Rystad Energy, società di ricerca e business intelligence. L’associazione tedesca degli importatori di carbon fossile ha inoltre stimato a marzo che le importazioni russe potrebbero essere rapidamente sostituite dalle forniture di paesi quali Stati Uniti, Colombia, Sud Africa, Australia, Mozambico e Indonesia. Ciononostante, Berlino ha insistito sul fatto che questo passo non muta i piani per la decarbonizzazione entro il 2030: una palese contraddizione che tuttavia si cerca maldestramente di nascondere.
Le sanzioni contro la Russia, dunque, non solo hanno causato un’inflazione energetica senza precedenti, esponendo l’economia europea alla recessione senza peraltro fermare la guerra – principale obiettivo dichiarato delle sanzioni – ma stanno anche allontanando quegli obiettivi di decarbonizzazione che costituiscono il principale stendardo e motivo di “orgoglio” delle politiche europee. Sebbene, infatti, si voglia far credere il contrario, le rinnovabili coprono ancora una percentuale di fabbisogno energetico troppo bassa, specie in ambito industriale e, tra le tre fonti fossili, il gas naturale rimane quella meno inquinante. Sostituirla con il GNL americano o peggio con il carbone per “punire” Putin non può essere in linea con gli obiettivi della transizione energetica e finisce per punire unicamente l’industria, l’economia e la società europea. Non per niente, in un articolo dettagliato sulla questione, su L’Indipendente ci siamo spinti a definire quelle alla Russia le prime “autosanzioni” della storia.
[di Giorgia Audiello]
Consumare meno, coinvolgendo i consumatori. Gli sprechi energetici iniziano nelle famiglie, nelle imprese e nelle città. Dovremmo promuovere la parsimonia e il “fare economia” riducendo il consumo di energia in ogni ambito di cui facciamo parte. Acquistiamo a basso impatto, abbassiamo il comfort di case, imprese e negozi durante l’inverno, sprechiamo meno, usiamo le auto con parsimonia. Chiamiamola la “recessione energetica”.