venerdì 22 Novembre 2024

Ricomincia la stagione di caccia: tra proteste, contenziosi e diversi illeciti

La stagione di caccia è al via in tutta Italia e con essa tornano non solo le polemiche ma anche le cause che ambientalisti ed ecologisti presentano per cercare di limitare l’attività venatoria. Il Consiglio di Stato si è dovuto ad esempio esprimere, recentemente, sull’ennesimo contenzioso: la Regione Veneto, sotto pressione della Federazione Italiana della Caccia (Federcaccia), aveva chiesto l’annullamento di un decreto del TAR di Venezia che imponeva lo slittamento dell’apertura alla caccia a 19 specie di uccelli, nonché il blocco della possibilità di aggiungere una quarta e una quinta giornata settimanale di attività venatoria da appostamento ai migratori. Il decreto in questione, a sua volta, era stato emesso dal tribunale amministrativo veneto su ricorso della Lega Abolizione Caccia (LAC), la quale aveva fatto notare quanto fosse rischioso mantenere elevata la pressione venatoria sull’avifauna proprio nel periodo più delicato per il flusso migratorio autunnale. Il Consiglio di Stato, questa volta, ha dato ragione all’associazione e, a dirla tutta, non è la prima volta che accade. In questo caso, il risultato era però abbastanza scontato, dal momento in cui un parere tecnico dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), lo stesso che la Regione avrebbe voluto ignorare, aveva già ribadito l’insostenibilità delle attività venatorie durante le migrazioni. Ad ogni modo, contenziosi simili, spesso scaturiti da decisioni prese a livello regionale in barba alla gerarchia giuridica, sono comunque all’ordine del giorno. Sempre in tempi recenti, ad esempio, due norme inserite nella Legge di Bilancio dalla Regione Liguria sono state dichiarate illegittime. Attraverso una rimodulazione del concetto di “arco temporale massimo di cacciabilità”, già regolato da una Legge Nazionale, le norme bloccate sono da subito apparse come un tentativo artificioso – e incostituzionale – di dilatare il periodo di caccia. Spesso quindi l’una o l’altra amministrazione si è trovata al centro di contenziosi tra chi la caccia la pratica e chi invece la vorrebbe vedere abolita. Basti pensare che nella stagione venatoria 2021-2022, il solo WWF ha impugnato le delibere di ben 10 Regioni. 9 di queste sono state bocciate. 

I numeri della caccia in Italia

In Italia, la caccia è regolamentata essenzialmente dalla legge 157/1992 – “Norme per la protezione della fauna omeoterma e per il prelievo venatorio” – comunemente nota come ‘la 157’. La norma in questione nasce con l’obiettivo di recepire la Direttiva europea ‘Uccelli’, il riferimento comunitario per la conservazione dell’avifauna selvatica. La 157, in primo luogo, stabilisce quindi le norme per la protezione di una fetta della biodiversità e, di conseguenza, fissa le regole generali per lo svolgimento di attività potenzialmente dannose per quest’ultima, tra cui, l’esercizio venatorio. Tra i punti salienti figurano le modalità di programmazione della caccia attraverso i Piani Faunistici Venatori, grazie ai quali le regioni devono calendarizzare le attività di conservazione della fauna facendole coincidere con la regolamentazione dell’attività venatoria. Gli stessi calendari che spesso sono i principali protagonisti dei vari contenziosi giuridici. Altra novità, la suddivisione della Penisola in Ambiti Territoriali di Caccia (ATC), aree ben definite che vincolano il cacciatore a un territorio specifico, nonché ad un’esclusiva modalità di caccia, vagante o da appostamento. Per il settore venatorio, la norma concepita da Bruxelles non è stata facile da digerire: per la prima volta, la conservazione della natura è stata infatti messa in una posizione privilegiata e un’attività fino ad allora quasi del tutto libera da vincoli – la caccia – si è ritrovata con limitazioni stringenti. Biodiversità o meno, molti ritengono che la caccia, presto o tardi, sia comunque destinata a scomparire a causa di uno shift culturale. A sostegno di tale tesi, i numeri: nel 1980, i cacciatori in Italia erano circa un milione e 700 mila, nel 1990, un milione e 450 mila e, nel 2000, 800 mila. Oggi, se ne contano circa 700 mila. Un calo che appare inesorabile, ma non di certo sufficiente a decretare la fine di una delle attività umane più ancestrali. E se il numero di cacciatori è in declino, non si può dire altrettanto del giro d’affari che ruota attorno all’attività venatoria. Motivo per cui, forse, le Regioni hanno spesso un occhio di riguardo per chi, ormai solo come hobby, sceglie di andare a caccia. Nonostante l’inevitabile contrazione della spesa legata ad un calo di interessati, la caccia, e in generale il settore delle armi, rappresenta ancora una voce importante nel mercato economico italiano. Nel 2016, la spesa annua per la sola attività venatoria ammontava a quasi 3 miliardi di euro. Escludendo l’esborso per armi e munizioni, ogni anno la caccia muove – attraverso abbigliamento, accessori, spostamenti, assicurazioni e poche altre voci – oltre 2 miliardi e mezzo di euro. Una cifra enorme che è compresa nell’ancor più vasta ricchezza prodotta in Italia dal settore armiero: sette miliardi e poco meno di trecento milioni di euro. 

Il filo sottile tra caccia e bracconaggio

“Uccide 191 uccelli di cui 113 appartenenti a specie particolarmente protette, cacciatore finisce nei guai”; “Cacciatore uccide due uccelli di specie protetta: denunciato”; “Operazione Pettirosso: denunciati 4 cacciatori per l’uccisione di animali protetti”; Avifauna protetta abbattuta a Ripalta Arpina e Stagno, due cacciatori denunciati”: sono solo alcuni dei titoli di giornale che evidenziano quanto il filo tra caccia e bracconaggio sia spesso troppo sottile. Il numero di esemplari appartenenti a specie a rischio annualmente abbattuto dai cacciatori è infatti tutt’altro che trascurabile ma, al riguardo, non vi sono delle stime precise. Si sa però che i reati complessivi contestati in ambito venatorio sono molti, nella sola stagione 2021/2022, 68. Si sa inoltre che gli animali legalmente abbattibili, ogni anno, possono toccare quota 400 milioni. Se tale cifra includesse solo individui delle 48 specie cacciabili nel Belpaese, potrebbe non essere un dramma, tuttavia, spesso non è così. E anche se lo fosse, secondo le associazioni animaliste, ci sarebbe ancora qualche aspetto contorto. «In Italia – spiega la LIPU – sono attualmente cacciabili 12 specie di mammiferi e 34 specie di uccelli. Tra gli uccelli cacciati, 19 specie si trovano attualmente in uno stato di conservazione sfavorevole, cioè con popolazioni che stanno subendo un declino della consistenza numerica. In questo caso la caccia, secondo quanto stabilito da direttiva Uccelli e legge 157, dovrebbe essere vietata, ovvero permessa con forti limitazioni e solo a fronte di specifici piani di gestione». Tra le specie in stato di conservazione precario, ma ancora cacciabili, figurano ad esempio la tortora selvatica e la coturnice, rispettivamente, in uno stato ‘vulnerabile’ e ‘prossimo alla minaccia’ secondo i criteri universali dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN). «In più – aggiunge la LIPU – molte specie cacciabili sono simili a quelle protette perché estremamente a rischio (le cosiddette look-a-like species). Questa situazione si aggrava con le preaperture, deroghe speciali che in alcune Regioni anticipano l’inizio della stagione venatoria, permettendo di abbattere animali giovanissimi, estendendo i periodi di caccia prefissati». In questo contesto non mancano poi gli illeciti legati ai limiti temporali, come il praticare l’attività venatoria al di fuori del periodo stabilito dalla legge (dalla terza domenica di settembre al 31 gennaio). Salvo, per l’appunto, deroghe cui le Regioni fanno spesso ricorso. Senza contare poi che tra le vittime, non di rado, rientrano ogni anno decine di persone. In 10 anni, dal 2011 ad oggi, gli esseri umani uccisi per errore da un cacciatore hanno raggiunto quota 209. 682 i feriti. 90 le vittime (uccise o ferite) nella sola stagione venatoria scorsa. Nella maggior parte dei casi, a rimetterci la pelle (o quasi) sono altri cacciatori o ignari escursionisti. 

Un aiuto contro i cinghiali

Ad ogni modo, la caccia potrebbe non essere solo questo. Una qualche parvenza di utilità ce l’ha, come nel caso dell’attività venatoria finalizzata al controllo delle popolazioni di cinghiale. Che lo si voglia riconoscere o meno, l’esplosione demografica dei suidi selvatici è un problema su tutti i fronti: agricolo, ambientale e sanitario. I cinghiali – in assenza di predatori naturali e favoriti dall’aumento della copertura boschiva e dall’accessibilità dei rifiuti urbani – stanno infatti letteralmente invadendo gran parte dei comparti ecologici italiani. Se la biodiversità non fosse stata danneggiata da tempo la popolazione dei cinghiali sarebbe sotto controllo tramite la presenza di predatori e concorrenti naturali. Oggi tuttavia non è così, e la caccia diventa la potente alleata dei piani di contenimento dei cinghiali, che spesso prevedono proprio battute mirate per il controllo delle popolazioni di ungulati allo sbaraglio. Tolta però alcuna situazione specifica come quella elencata, la caccia al giorno d’oggi è niente più che una forma di divertimento. La fauna selvatica secondo la legge italiana è “patrimonio indisponibile dello Stato” e appartiene alla collettività. Perché qualcuno dovrebbe avere il diritto di uccidere qualcosa che è patrimonio di tutti?

[di Simone Valeri]

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1 commento

  1. Recentemente ho letto un articolo riguardo alla caccia al cinghiale, dove veniva spiegato che di fatto non è utile a contenere la popolazione, al contrario, divide i gruppi familiari e di conseguenza favorisce la prolificità delle femmine

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