Osama Paolo Harfachi, 29enne foggiano di origini marocchine, è morto in carcere nel letto della sua cella, in circostanze sospette, cinque giorni dopo il suo arresto per furto. «Sentiva molti dolori, le ultime cose che mi aveva detto era che la polizia lo aveva picchiato. Il carcere non ci ha informato di niente, né all’arresto né della sua morte. Chiedo giustizia, verità, qualsiasi cosa sia successa: chi entra in carcere ha il diritto di vivere» ha scritto nel suo lungo post denuncia, pubblicato su Facebook, Zakaria Harfachi fratello della vittima, che reclama tra le altre cose, di non aver ancora potuto vedere il corpo di Paolo.
Le prime ispezioni hanno ricondotto la morte dell’uomo ad un arresto cardiaco. Ma come ha più volte sottolineato la famiglia, «non aveva alcun problema di salute». Una versione dei fatti che, secondo loro, non regge. Anzi, i genitori hanno raccontato di un ragazzo pieno di energia, sportivo e amante del calcio. Fra gli elementi che hanno spinto la famiglia di Paolo a dubitare della conclusione a cui sono momentaneamente giunte le indagini – e a sporgere denuncia – ci sono degli sms, arrivati il giorno successivo all’arresto del figlio e inviati da un ex detenuto. Quest’ultimo, uscito dal carcere poco dopo l’arrivo di Paolo, ha scritto a Zakaria di aver incontrato il ragazzo nei corridoi, e di averlo visto molto sofferente. «Mi ha detto che lamentava dolori all’addome e che l’avevano picchiato. La sera prima è andato a letto e il giorno dopo non si è più svegliato», ha detto Zakaria in merito al contenuto dei messaggi.
I genitori, a questo punto, temono che il figlio possa essere stato riempito di botte, fino a morire e per questo hanno chiesto che sulla vicenda sia fatta chiarezza. Nei prossimi giorni, su richiesta del PM, sul corpo di Paolo sarà effettuata l’autopsia. Fino ad allora, e fino a quando non si avranno risposte più certe, le indagini sulla casa circondariale di Foggia andranno avanti.
Non è mancato il commento del Sappe, il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria che, attraverso il suo segretario Federico Pilagatti, ha chiesto di farla finita con «questa caccia al poliziotto penitenziario». Secondo il suo racconto, il detenuto sarebbe infatti stato sistemato, dopo l’arresto, in una stanza con altre persone che non hanno notato nulla di insolito. «Stiano tranquilli i genitori del detenuto morto, poiché è stato fatto tutto quello che era necessario per chiarire il tragico accadimento».
Anzi, il segretario ha detto che è stato proprio un poliziotto addetto alla sezione ad aver mobilitato i sanitari: durante il suo consueto giro delle celle, verso le ore 8 circa, si sarebbe insospettito per non aver ricevuto alcuna risposta da parte di Paolo ai suoi ripetuti richiami.
«Gettare fango sulla polizia penitenziaria è uno sport nazionale: la più famosa è stata la signora Cucchi, sorella di un detenuto morto in ospedale, che per mesi ed anni, grazie alla connivenza di giornalisti ‘democratici’, ha gettato fango sull’istituzione penitenziaria», ci ha tenuto a sottolineare Pilagatti. Per onore di cronaca, c’è tuttavia da ricordare che per la morte di Stefano Cucchi il 4 aprile del 2022 la Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro a dodici anni di reclusione per omicidio preterintenzionale. Particolare che dal Sappe hanno preferito dimenticare. Oltretutto non sono pochi i casi di morti sospette sulle quali ancora occorre fare luce in Italia, non per gettare fango, ma per reclamare verità e giustizia come ingredienti irrinunciabili in una democrazia.
[di Gloria Ferrari]