giovedì 21 Novembre 2024

I tribunali “segreti” che consentono ai colossi energetici di denunciare i Governi

Esiste un sistema giudiziario segreto che consente a chi investe in combustibili fossili di citare in giudizio i Governi qualora questi adottino politiche che ne scoraggiano l’utilizzo. Il problema è che, come riferisce il Guardian, tale organizzazione è stata accusata di parzialità istituzionale, problemi di autoregolamentazione e conflitti di interessi.

Tutto questo è possibile per via dell’esistenza del Trattato sulla Carta dell’Energia (ECT), un patto firmato da circa 40 Paesi (molti dei quali però iniziano ad allontanarsene, come la Germania), pensato nello specifico per proteggere gli investimenti nei combustibili fossili grazie ad uno strano e contestato meccanismo. In altre parole: le aziende che ritengono di aver subito un danno dallo Stato per via dalle politiche energetiche e climatiche adottate, possono trascinarlo in tribunale e costringerlo ad un risarcimento miliardario. Tale meccanismo, nato negli anni ’90, fu pensato e istituito per tutelare gli investitori dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Fondamentalmente per proteggere le imprese energetiche che operavano in quei territori dall’espropriazione e dalle nuove regolamentazioni.

A gestire le vicende che ruotano attorno all’ECT ci sono dei “tribunali”, che negli anni e nella maggior parte dei casi hanno dato alle società energetiche la possibilità di chiedere un risarcimento ai Governi. Di fatto le aziende petrolifere, del gas e del carbone di tutto il mondo hanno ricevuto più di 100 miliardi di dollari dai tribunali ECT, probabilmente perché questi ultimi, come riferisce il Guardian e come abbiamo detto a inizio del pezzo, non sono imparziali e hanno problemi di autoregolamentazione e conflitti di interessi.

Il funzionamento dei tribunali dell’ECT si basa su molti sistemi, diversi però da quelli giuridici tradizionali (dove la magistratura dovrebbe essere nominata pubblicamente e in maniera indipendente), e le regole prese come punto di riferimento sono quelle formulate dal Centro internazionale per la risoluzione delle controversie internazionali (ICSID) della Banca mondiale.

Per ogni caso, si legge sul Guardian, si sceglie un collegio di tre ‘arbitri’: “uno nominato dallo Stato, uno dall’investitore e un terzo che funge da presidente ed è selezionato dagli altri due arbitri”. La scelta di uno dei componenti può essere contestata se una parte non è d’accordo, ma non è garantito che alla fine ci sia un cambio. Una volta stabilito il “trio”, si procede in questo modo. Il caso viene presentato e discusso davanti ad un gruppo di avvocati, che rappresentano rispettivamente ognuna delle due parti. Il tutto avviene a porte chiuse, e non c’è obbligo di divulgare al pubblico l’esito della controversia.

L’intoppo però sta proprio nel meccanismo di funzionamento interno: un avvocato, ad esempio, può assumere un certo ruolo in un caso (consulente per un investitore, per citarne uno) ed essere scelto come presidente in un altro. Tuttavia quest’ultima figura dovrebbe essere al contrario in grado di giudicare in maniera indipendente. In base ai casi giudicati fino ad ora dall’ECT, in un numero significativo di questi, “un individuo che aveva precedentemente agito in qualità di arbitro nominato da un investitore, in un altro caso simile è stato nominato per agire come difensore per un’altra parte”. Visto che tali operazioni si svolgono in segretezza, è spesso complicato stabilire che gli arbitri, ad esempio, non abbiano legami con gli avvocati coinvolti nel processo o non siano essi stessi degli avvocati. Anzi, il silenzio che avvolge le vicende può essere sfruttato per indirizzare i processi in una precisa direzione, anche se il regolamento dice che gli arbitri dovrebbero essere “persone di alto carattere morale e riconosciuta competenza nei campi del diritto, del commercio, dell’industria o della finanza, alle quali si può fare affidamento per esercitare un giudizio indipendente”.

Ed ecco l’ennesimo inghippo: le regole sono autogestite dagli arbitri e va a finire che «l’obiettivo principale dell’ECT è promuovere e proteggere gli investimenti in combustibili fossili, che non è affatto l’obiettivo dell’accordo di Parigi», come ha detto Patrice Dreiski, ex dirigente dell’ECT. Infatti negli ultimi anni la maggior parte delle controversie ha coinvolto gli Stati dell’UE per via della loro intenzioni a spendere denaro per incentivare le rinnovabili e ridurre i combustibili fossili. Per fare qualche esempio, nel 2021 le società energetiche tedesche RWE e UNIPER si sono appellate all’ECT ​​per citare in giudizio i Paesi Bassi, chiedendo un risarcimento di diversi miliardi di euro per la politica di eliminazione dell’energia a carbone entro il 2030 messa in atto dal Paese. Un episodio simile è capitato anche ai danni dell’Italia. Nel 2017 la compagnia petrolifera britannica Rockhopper ha citato in giudizio il nostro Governo – che si è ritirato dall’ETC nel 2016 – per aver vietato le trivellazioni petrolifere sulla costa adriatica. Nell’agosto del 2022 il tribunale ha stabilito che l’Italia dovrà pagare, per questo, 190 milioni di euro. Di esempi simili ce ne sono moltissimi, soprattutto perché i Paesi stanno cercando di ridurre le proprie emissioni per rispettare l’accordo di Parigi del 2015 sul clima.

Per questo motivo è giunta da Bruxelles la proposta di eliminare gradualmente l’ECT ​​all’interno dei confini dell’UE: sono gli stessi membri ormai a non mostrare particolare entusiasmo per il meccanismo. Francia e Paesi Bassi, ad esempio, hanno annunciato di volerlo abbandonare a breve perché non più in linea con gli obiettivi climatici. Potrebbero optare per la stessa scelta molti altri Stati, soprattutto perché ad oggi, gli investitori in combustibili hanno vinto il 64% dei casi ECT conclusi.

[di Gloria Ferrari]

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