La Turchia ha lanciato un’offensiva militare contro le milizie curde in Siria e in Iraq. L’operazione “Spada ad artiglio” è stata giustificata dal Ministero della Difesa di Ankara affermando che le regioni settentrionali dei due Paesi «vengono utilizzate come basi dai terroristi». Gli stessi a cui il governo turco ha attribuito l’attentato nel centro di Istanbul che ha provocato la morte di sei persone. Si tratta, nello specifico, dei militanti del partito curdo del PKK e delle milizie siriane dell’YPG. Nelle ultime ore, le autorità curde del Congresso nazionale del Kurdistan (KNK) hanno riferito che a Kobane i raids hanno colpito anche obiettivi civili, tra cui scuole e ospedali, causando almeno 18 morti. Le autorità del Kurdistan iracheno hanno parlato invece di 32 vittime sul proprio territorio, a fronte di 25 attacchi aerei. È da diversi anni che il governo di Ankara conduce operazioni militari contro i curdi sia in Siria sia in Iraq, nonostante rappresentino una chiara violazione delle norme internazionali.
Le regioni settentrionali dell’Iraq e della Siria rappresentano due dei cinque territori che i curdi, soprattutto negli anni ‘80, reclamavano come propria patria, il Kurdistan. A differenza delle altre, le due regioni godono di uno speciale status e rappresentano delle esperienze di autonomia e confederalismo democratico che alimentano la volontà di indipendenza da parte dei curdi-turchi e due pilastri su cui potrebbe fondarsi il futuro Stato, riconosciuto a livello internazionale, del Kurdistan. In Siria e in Iraq sono attivi il PKK e l’YPG, due organizzazioni che (da alleati dell’Occidente) fermarono l’avanzata dell’ISIS in Medio Oriente e ancora oggi condividono l’obiettivo di un Kurdistan indipendente, in virtù del principio di autodeterminazione dei popoli. Dopo essere stati alleati del mondo occidentale, i curdi si ritrovano oggi attaccati dalla Turchia (membro NATO) e abbandonati dagli Stati Uniti, partner principale nella lotta all’ISIS. Le due organizzazioni sono infatti bollate come terroristiche da Ankara, Bruxelles e Washington.
Le motivazioni su cui si basano le incursioni turche non reggono sul piano del diritto internazionale. Spesso gli Stati invocano la legittima difesa per giustificare attacchi compiuti nei territori di Stati terzi – e senza il consenso del governo locale – volti a colpire postazioni di terroristi. Tale azione è tollerata dal diritto internazionale nel caso in cui sia provato il collegamento diretto tra l’organizzazione terroristica e lo Stato territoriale, in cui la prima agisce sotto il controllo effettivo del secondo. Nel corso della storia recente, alcuni Stati hanno invece reagito ad attentati terroristici contro i loro cittadini utilizzando la forza armata nei confronti di Stati accusati di sostenere i gruppi terroristici responsabili di attentati, anche in assenza di prove certe circa il diretto coinvolgimento dello Stato ospitante. Si pensi al bombardamento da parte di Israele della sede dell’OLP a Tunisi nel 1985 in risposta all’uccisione di tre israeliani a Cipro. In casi del genere, le Nazioni Unite hanno espresso la loro ferma condanna, bilanciando una certa acquiescenza negli altri rami del diritto internazionale legati al terrorismo e alla legittima difesa. Senza la natura terroristica dell’organizzazione (concetto discrezionale che si presta al gioco politico degli Stati) e la connessione con il Paese in cui stanzia, gli attacchi sferrati da uno Stato terzo assumono i toni dell’illegittimità, sfociando nella violazione di diversi principi internazionali, tra cui la sovranità territoriale.
[di Salvatore Toscano]
ottimo articolo