Sono 45 le persone indagate per alcuni episodi di pestaggio avvenuti negli ultimi due anni nei confronti di diversi detenuti, rinchiusi nel carcere di Ivrea, in Piemonte. Tra loro ci sono agenti della Polizia penitenziaria, medici, funzionari, educatori ed ex direttori della Casa circondariale, sotto accusa per diversi reati: tortura fisica e psicologica, lesioni, falso in atto pubblico, minacce e calunnie. L’accusa, in generale, sostiene che alcuni detenuti, una volta rinchiusi in celle di isolamento, siano stati brutalmente picchiati e poi lasciati lì, agonizzanti, per giorni, in attesa che le ferite e i lividi divenissero un po’ meno evidenti.
Sommando queste 45 persone a quelle già segnalate, ad oggi in Italia sono più di 200 gli operatori penitenziari «indagati, imputati o già passati in giudizio all’interno di procedimenti che riguardano anche episodi di tortura e violenza avvenuti nelle carceri italiane», ha commentato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Numeri che evidenziano che quello della violenza all’interno delle case circondariali è ormai un cancro sistemico, che ritorna ciclicamente e coinvolge chiunque, pure i medici. E allora di chi ci si può fidare? Come si fa a raccontare al mondo quello che succede fra le sbarre, se c’è un muro di omertà ad ostacolare la verità?
Nel caso di Ivrea, ad esempio, il sospetto che fra quei corridoi stesse accadendo qualcosa non è arrivato dall’interno: è venuto da fuori, grazie alle numerose denunce di alcuni detenuti (che sono riusciti a parlare dopo il trasferimento in altre strutture), dei loro parenti e del Garante dei detenuti della Regione Piemonte.
La prima segnalazione, che ha rinvigorito le indagini dopo le denunce per fatti simili degli anni 2015 e 2016 – per cui ci sono stati 25 avvisi di garanzia – risale a più di un anno fa. In quell’occasione un detenuto trentenne aveva lamentato la violenza con cui un agente della penitenziaria gli aveva spezzato il braccio durante una sfida a braccio di ferro. Nell’immediato l’episodio è passato in sordina, tacciato come infortunio sul lavoro, ma quella denuncia ha in realtà scoperchiato un vaso di pandora che continua a riempirsi di casi di pestaggi. La differenza è che, negli atti che hanno riguardato le violenze del 2015-2016 non compare mai il reato di tortura, perché introdotto nel nostro ordinamento postumo, nel 2017.
Non è un caso comunque che già in quegli anni anche il Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura aveva aperto gli occhi sulla Casa circondariale di Ivrea. D’altronde il rapporto stilato proprio in quel periodo da Mauro Palma, Presidente del Garante nazionale dei detenuti, lasciava poco spazio all’immaginazione. Nei suoi racconti, frutto di diverse visite all’interno del carcere, si legge di una sala chiamata “Acquario” – per via dei vetri oscurati – o “cella liscia”, situata accanto all’infermeria, utilizzata come “cella di contenimento di natura afflittiva”. Qui i detenuti venivano riempiti di botte e poi abbandonati, da soli e per chissà quanto, senza la possibilità di parlare con qualcuno.
Oltre alla descrizione delle scarse condizioni igieniche, c’è un passaggio del documento che colpisce particolarmente, e che evidenzia quanto in profondità il morbo dell’indifferenza si sia radicato all’interno degli istituti penitenziari di tutta Italia. “Desta altresì seria preoccupazione l’atteggiamento diffuso sostanzialmente tra tutto il personale della Casa circondariale che pare non vedere o non saper ricostruire fatti e circostanze di oggettiva evidenza: dall’uso delle due ‘celle lisce’ negato dalla Polizia penitenziaria, a quello della cosiddetta sala d’attesa dell’infermeria che non viene nemmeno notato dal personale sanitario che lavora nella stanza accanto”. Come può non far rumore la storia di quell’uomo che, trasferito dal carcere di Vercelli a quello di Ivrea, aveva chiesto agli agenti di poter riprendere con sé le foto del padre e del figlio, e invece è finito scaraventato in quella “cella liscia” di cui nessuno sembra esserci accorto, denudato, ammanettato e picchiato?
«Il procedimento penale è attualmente nella fase delle indagini preliminari e ovviamente gli indagati sono da considerare non colpevoli fino a sentenza di condanna divenuta irrevocabile», ha detto Gabriella Viglione, il procuratore capo di Ivrea. Certo, per legge è così che deve andare. Ma i precedenti casi di cronaca raccontano di una realtà in cui l’evidenza è difficile da negare, almeno (a quanto pare) per chi la guarda da fuori.
Come quello di Osama Paolo Harfachi, 29enne foggiano di origini marocchine, morto in carcere nel letto della sua cella, in circostanze sospette, cinque giorni dopo il suo arresto per furto. «Sentiva molti dolori, le ultime cose che mi aveva detto era che la polizia lo aveva picchiato», ha detto suo fratello. O la vicenda che nel 2020 ha travolto la casa circondariale casertana di Santa Maria Capua Vetere, dove le violenze ai danni dei detenuti sono state registrate da alcune telecamere di sicurezza. Ad oggi non ci sono ancora condannati: la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per 107 persone, tra poliziotti della Penitenziaria e funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP). Un caso simile si è verificato anche nel carcere di Sant’Anna di Modena, dove numerosi agenti della polizia penitenziaria sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla Procura per reati di lesioni aggravate e tortura avvenuti durante la rivolta carceraria del 2020. Vicenda all’epoca si concluse con la morte di 9 reclusi.
Ma fino alla sentenza di condanna, sono tutti innocenti.
[di Gloria Ferrari]