Nei giorni scorsi, il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso si è recato a Kiev insieme al presidente di Confindustria Carlo Bonomi. L’obiettivo era di assicurarsi un posto nel business della ricostruzione del Paese e così è stata firmata una dichiarazione congiunta che istituisce un gruppo di lavoro bilaterale per cooperare in settori quali logistica, alta tecnologia, spazio, macchine agricole, startup e Piccole medie imprese (PMI). Un primo passo a cui farà seguito a marzo una conferenza ad hoc con la partecipazione dei governi, delle istituzioni finanziarie economiche e delle imprese italiane, come dichiarato da Urso in conferenza stampa. Il tema della ricostruzione ucraina era stato affrontato negli scorsi mesi anche a livello europeo, come dimostra l’”Ukraine Recovery Conference 2022”, un programma tracciato dall’UE lo scorso luglio che prevede prestiti a Kiev per un totale di 750 miliardi di euro. Nel caso in cui il piano si concretizzasse, l’Ucraina dovrà non solo restituire i fondi in futuro ma dovrà vincolarsi al rispetto di rigide condizioni, tra cui la privatizzazione della quasi totalità delle aziende pubbliche del Paese.
La visita di Adolfo Urso e Carlo Bonomi giunge all’indomani del voto espresso a larga maggioranza dal Senato al nuovo decreto che autorizza il governo a inviare armi ed equipaggiamenti all’Ucraina per tutto il 2023, con l’annuncio del sesto pacchetto in preparazione e la predisposizione delle misure di soccorso umanitario anche nel campo delle infrastrutture energetiche ed elettriche annunciate da Palazzo Chigi. «Abbiamo fissato le coordinate dell’impegno economico, sociale e produttivo e industriale italiano per lo sviluppo e la ricostruzione dell’Ucraina», ha dichiarato Adolfo Urso in conferenza stampa. Il supporto militare dell’Italia dell’ultimo anno potrebbe così tradursi nell’opportunità di accedere in modo privilegiato al mercato ucraino, su cui finiranno – tra le altre cose – la maggior parte delle aziende attualmente pubbliche del Paese. Ad ogni modo, le intenzioni italiane dovranno fare i conti con quelle degli alleati occidentali. Sulla ricostruzione dell’Ucraina è apparso assai interessato Blackrock, il fondo di investimenti statunitense più grande al mondo, con il quale il presidente Zelensky dovrebbe firmare nuovi accordi per la ricostruzione post-bellica durante il raduno del World Economic Forum (WEF), iniziato oggi a Davos.
A settembre scorso, Zelensky aveva dichiarato: «L’obiettivo del fondo è quello di creare opportunità per gli investitori sia pubblici che privati di partecipare alla ricostruzione e al ringiovanimento dell’economia di mercato in Ucraina, offrendo rendimenti equi e giusti agli investitori». Il rischio è che l’intero settore pubblico ucraino venga svenduto alla finanza internazionale, cosa già accaduta in passato con il settore agricolo del Paese: quest’ultimo, infatti, è ormai quasi interamente nelle mani di multinazionali statunitensi ed europee – quali Monsanto, Cargill e Du Pont – come attestato anche dal documento “The corporate takeover of ukraine agriculture”, redatto dall’Oakland Institute. Alle mire europee e statunitensi si aggiungono poi quelle cinesi, con Pechino che sin dall’inizio del conflitto tra Ucraina e Russia ha sempre mantenuto una posizione ambigua, così da mantenere saldo il forte legame commerciale ed economico che lo lega a Kiev. Lo stesso Zelensky ha auspicato il contributo della Cina nella ricostruzione del suo Paese, evitando di criticare proprio la posizione non chiara di Pechino sul conflitto.
Al dibattito sulla ricostruzione non si è affiancato quello relativo al termine della guerra, che al momento appare remoto vista la carenza diplomatica. Così come non sono state annunciate intenzioni serie per risolvere alcuni problemi strutturali, tra cui la corruzione, in quello che il Corruption Perception Index di Transparency International definisce come il terzo Paese più corrotto d’Europa. Ciò che sembra certo è invece la liberalizzazione del mercato del lavoro, a cui si aggiunge la privatizzazione della proprietà pubblica, una volta ricostruite le infrastrutture. Una strategia simile fu applicata da Washington per la ricostruzione dell’Iraq, definita da Naomi Klein “capitalismo dei disastri.” Sfruttando il caos della guerra, vennero privatizzate e smantellate le imprese di Stato, lasciando milioni di iracheni senza lavoro in un Paese devastato. Ciò portò a disuguaglianza, corruzione, radicalizzazione e instabilità che, oltre al danno sociale, resero l’Iraq molto meno attraente agli investimenti privati, come inizialmente auspicato.
[di Salvatore Toscano]