venerdì 22 Novembre 2024

Perché Sanremo (purtroppo) è sempre Sanremo

Il Festival di Sanremo è quel fenomeno culturale che, vuoi o non vuoi, ci coinvolge tutti. Tra chi «no ma io non lo guardo nemmeno legato alla sedia sotto tortura», chi «ma sì dai una puntata ci sta» e chi «io lo seguo solo per il Fantasanremo», prima o poi passa sulla bocca di tutti. Che piaccia o no quello del Festival è un fenomeno che, in qualche modo, entra nelle case di tutti gli italiani e proprio questa sua pervasività ne fa un polo magnetico di attrazione per la politica e gli interessi annessi. Se poi a farne parte sono personaggi di rilievo internazionale come Chiara Ferragni (il cui monologo della prima serata è stato tradotto in diverse lingue ed è rimbalzato su decine di canali di informazione fuori dal Paese) la portata ne viene ulteriormente amplificata. La musica, probabilmente, è l’ultima delle componenti. Anche in questa edizione il festival della musica nazionalpopolare si conferma una poderosa macchina di indottrinamento ed anche, come ormai altrettanto imprescindibile, una grande operazione autoassolutoria all’insegna di monologhi e presunte battaglie sociali.

Ciò che colpisce, ogni anno, del Festival, è che incredibilmente vi sono sempre gli stessi venti-trenta nomi a prenderne parte. È sorprendente, perché il contesto underground della musica italiana è ricco di artisti di grandissimo talento, eppure il “festival della musica italiana” è un compendio di articoli prodotti in serie e che quindi, per loro stessa natura, si somigliano tutti. I testi sono tutti uguali, le melodie tutte uguali, persino i tagli di capelli sono tutti uguali. Coloro che, fino ad ora, sono saliti sul palco non rappresentano che un terzo della musica in circolazione. Certo, rappresentano il 110% dell’arte mainstream, quello sì. E se non sono gli stessi prodotti in serie, sono nomi vecchi e stravecchi della musica che ancora vengono chiamati a rappresentare la scena dell’arte italiana. Non che non mi sia divertita a cantare a squarciagola (e con l’aiuto della giusta dose di vino) Perdere l’amore eh. Ma nella stessa misura in cui mi sono divertita quando il mio amico, all’ingresso dei Cugini di campagna (i Cugini di campagna, ragazzi, per davvero) ha esclamato «toh, sono arrivati i Maneskin» (e sappiate, perché io non lo sapevo, che se la battuta vi sembra scontata una polemica tra Cugini di campagna e Maneskin per via dei costumi c’è stata per davvero). Però insomma, che amarezza. Sono stata a un concerto di un gruppo napoletano qualche sera fa, i Foja: cinque ragazzi di talento che sono riusciti a produrre dell’ottima musica in quel genere difficilissimo che è il folk-rock. Ma non credo che li vedremo mai mettere piede sul palco dell’Ariston. A dire il vero, non credo che la metà di coloro che leggeranno questo articolo nemmeno sappia chi sono, i Foja.

«Questo contenuto è tutto autoassoluzione» ha detto a un certo punto della terza serata un mio amico. E aveva ragione. Il palco dell’Ariston, oltre che passerella per i suddetti talenti, è vetrina di presentazione di argomenti di rilievo sociale che vengono sciorinati in serie, ricamati, infiocchettati e pieni di strass, ma incapaci di alcuna profondità. Prendiamo Chiara Ferragni. In conferenza stampa, ben prima dell’inizio del Festival, l’occasione per dire qualcosa di veramente femminista l’ha avuta. In conferenza stampa, un giornalista le ha posto una domanda semplice e alquanto prevedibile, una di quelle domande sulle quali avrebbe dovuto essere più che pronta (ricordiamo che stava per salire sul palco del festival più famoso d’Italia per mettere in scena una gigantesca operazione di marketing femminista). La domanda era, su per giù, «cosa ne pensi dei testi misogini e sessisti che Fedez ha scritto in passato?». Panico. Mmmmm, mah, non so, chiedetelo a lui, io rappresento me stessa. Ma appunto, incalza, il giornalista, io sto chiedendo a lei cosa ne pensa. No? Niente? Va beh, grazie. Qualche ora dopo è salita sul palco con un meraviglioso vestito di Dior e uno scialle recante la scritta pensati libera. Fun fact: la scritta è rubata (letteralmente) a un artista bolognese, Cicatrici Nere, street artist e tatuatore, al quale nemmeno a seguito della polemica scoppiata sui social è stato dato credito né dalla influencer, né dal suo team artistico, né da un accidente di nessuno, se non dalle voci indignate degli utenti che ben conoscono il suo lavoro.

 

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Quindi Chiara, che non è riuscita a formulare l’unica vera affermazione spontanea che poteva far credere alla profondità del suo femminismo e del suo sentirsi libera e che ha iniziato la prima serata del festival sentendosi libera di indossare il plagio di qualcuno (il privilegio, si sa, è anche questo: poterti permettere di fare quello che vuoi, senza preoccuparti troppo delle conseguenze), ha sciorinato nel corso della serata una serie di prodotti (leggi letteralmente: merce) che avrebbero dovuto ergersi a una sorta di manifesto femminista ma che, alla luce di quanto detto prima, mi sono parsi più il bel guscio scintillante di qualcosa di vuoto all’interno (e non parlo di Chiara in sé, si badi bene, parlo del manifesto del femminismo che ha preteso di indossare per l’intera serata). Nemmeno il monologo è riuscito ad essere convincente, somigliando più a un compendio di frasi fatte rielaborate nella cornice del prodotto che Chiara sa vendere meglio di tutti: sé stessa. Ma d’altronde è quello il suo mestiere: cosa ci dovevamo aspettare? C’è da dire, perché va detto, che l’intero cachet delle due serate da conduttrice Chiara lo devolverà all’associazione D.I.R.E., che si occupa di violenza di genere. C’è da dire, perché va detto anche questo, che centomila euro di cachet per i Ferragnez sono probabilmente poco più che spicci. In ogni caso, ho un suggerimento per la produzione di Sanremo: la prossima volta, invece di invitare qualcuno che parli poco e male di femminismo, passiamo alle azioni concrete. Lasciamo la conduzione del festival a una donna. Che in 70 anni di Festival di Sanremo, le conduttrici donne si contano sulle dita di una mano, forse una mano e mezza.

Cos’altro vogliamo citare della prima serata, l’amore di Benigni per l’articolo 21 della Costituzione? Glielo avranno ben spiegato che questo mal si combina con le denunce per diffamazione che lui stesso lanciò anni fa contro i giornalisti di Report per aver fatto il loro lavoro, che sfiga vuole riguardasse lui. La furia iconoclasta (i fiori, d’altronde, sono il simbolo di Sanremo), molto di cattivo gusto e poco rock di Blanco? Non ho esattamente capito cosa intendesse fare, se fosse una montatura preparata ad arte o no, ma probabilmente non era ancora nato quando nel 2001 fischiarono persino Molko dei Placebo per aver sfasciato una chitarra sul palco. La piccola (leggi: mastodontica) differenza tra i due episodi è che il gesto di Blanco non era investito di alcun significato artistico. Blanco sfascia i fiori perché non sente la voce in cuffia. E niente, credo che sia già abbastanza deprimente così, senza dover aggiungere altro.

Di rilievo, a parte tutto, è che quanto accade a Sanremo sia di forte interesse per la politica. Perché un programma con una tale platea di spettatori (si è parlato di oltre 10 milioni di persone per la prima serata) è una gigantesca macchina di indottrinamento. Se così non fosse, la discussione sulla rappresentazione del gender non sarebbe arrivata fino in Parlamento, con la surreale polemica di Maddalena Morgante, deputata di Fratelli d’Italia, contro il concorrente Rosa Chemical e il rischio che il festival della canzone diventi «l’ennesimo spot a favore del gender e della sessualità fluida, temi sensibilissimi e che da sempre Fratelli d’Italia contrasta». Come non sarebbe nemmeno stata ipotizzata la possibilità che il presidente ucraino Zelensky potesse fare una comparsata sul palco.

È legittimo, anzi è sano, che i musicisti facciano della loro arte uno strumento politico, come ha cercato a suo modo di fare Fedez, a prescindere che il personaggio piaccia o no. Anzi, è stata una boccata d’aria sentire finalmente un brano che non fosse l’ennesima lagna struggente d’amore. Ma quando ad essere politicizzata è la produzione del programma, allora la storia è ben diversa. Sanremo è lo specchio di una certa parte di società che, come giustamente ha detto il mio amico, «cerca autoassoluzione», ma cerca anche legittimazione. Lo dimostra la presenza di Paola Egonu. La storia di Paola, atleta di formidabile talento, è la prova che l’Italia è ancora una nazione profondamente razzista e che no, non sta migliorando, come ha dichiarato lei in conferenza stampa. Un anno fa, Paola decise di abbandonare la nazionale italiana di pallavolo per via della valanga di commenti razzisti che riceveva costantemente per il fatto di essere un’italiana in un corpo non conforme, un corpo che da scandalo: un corpo nero. Ieri sera, durante il suo monologo, Paola è stata costretta, tra le righe, a scusarsi. «Amo profondamente l’Italia» sono state le parole che ha pronunciato, da italiana nata in Italia. Alla Ferragni (per dirne una) sarebbe stato chiesto di specificare una cosa simile? Io non credo. La valanga di commenti che le ricordano di “provare gratitudine per le possibilità che questo Paese le ha dato”, giunte non solo dagli utenti comuni ma anche dalla politica, a seguito del suo monologo dimostrano che sì, Paola ha ragione, siamo un Paese di razzisti, ma siamo ben lontani dall’intravedere la luce al fondo di questo deprimente tunnel.

Alla fine della fiera, però, mi sono divertita. Non penso, tuttavia, che guarderò altre puntate, per quest’anno va bene così. Di spunti di polemica ve ne sarebbero altri mille e mille ancora, ma direi che può bastare. Me ne torno alla mia musica poco mainstream e molto underground. Però fatevi un favore, ascoltateli i Foja.

[di Valeria Casolaro]

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4 Commenti

    • Non guardo il festival di Sanremo ma ovviamente ne sento parlare, e ne leggo, volente o nolente.
      Mi permetto di dissentire riguardo un paio di passaggi: la partecipazione del cantante di sesso perde molto significato e soprattutto molta autenticità (“polemica surreale”? Forse per chi scrive, fortunatamente non per tutti. Inoltre non ho capito bene perché in un articolo che parte da una critica a Sanremo si finisca per cogliere la palla al balzo per affermare una volta di più che l’Italia è un paese retrogrado, razzista, eccetera eccetera. Però allora Sanremo in questo caso quindi sarebbe da lodare, no? Boh.) quando propinano gli stessi argomenti forzati in ogni dove e ad ogni angolo, un po’ come se ormai fosse un passaggio obbligato.
      L’altro è la “questione Egonu” (di cui avevo letto anche su altri giornali): mi spiace ovviamente per tutte le difficoltà e i dispiaceri che l’atleta ha dovuto sopportare (e non ho seguito direttamente il suo intervento), ma se a raccontare le stesse identiche cose fosse stata un ragazzo di pelle bianca (e capita anche a loro tutti i giorni in tutta Italia, e in tutto il mondo) dubito fortemente che saremmo qui a parlarne ancora. Poi anche in questo caso vale il dubbio di cui sopra: secondo la tesi dell’autrice dell’articolo, anche in questo caso brava Sanremo per averle permesso di esternare il tutto, no? Io ovviamente non la penso così, ma coerenza vorrebbe…

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