Nella parte settentrionale del Kenya la sopravvivenza delle comunità indigene Samburu, Masai, Borana e Rendille – e molte altre ancora, per un totale di circa centomila individui – è messa a repentaglio da un progetto che, almeno su carta, avrebbe dovuto migliorare il loro modo di vivere e l’inquinamento atmosferico. I popoli che abitano le terre coinvolte nel Northern Kenya Grassland Carbon Project (Nkcp), un progetto voluto dall’organizzazione Northern Rangelands Trust (Nrt), vivono principalmente di pastorizia. Bovini, cammelli, pecore e capre, che si spostano fra i pascoli seguendo la stagionalità delle piogge, danno loro cibo e lavoro.
Ma, secondo il piano nato nel 2013 e definito «il più grande al mondo per la rimozione del carbonio dal suolo», tali abitudini vanno cambiate, fondamentalmente per ripulire le coscienze occidentali. Spieghiamo perché. Secondo quanto previsto dal Nkcp, gli indigeni devono sostituire la consueta pratica del pascolo tradizionale (non pianificato) con un pascolo a rotazione calendarizzato, che consentirebbe alla vegetazione dell’area di crescere in modo più prolifico. Uno sviluppo dell’area verde che garantirebbe un maggiore assorbimento di carbonio, visto che le piante catturano dall’ambiente molta CO2, nei terreni indigeni. L’organizzazione dice che in questo modo si riuscirebbero a stoccare circa 1,5 milioni di tonnellate di carbonio in più all’anno, da rivendere in crediti alle società inquinanti.
Si tratta di una pratica piuttosto sponsorizzata negli ultimi anni, e che, nel concreto, prevede che un’azienda inquinante paghi (acquistando crediti) per le sue emissioni. Significa praticamente accaparrarsi, pagando, l’autorizzazione a emettere una tonnellata di anidride carbonica (quanto vale un credito) o la quantità equivalente di un diverso gas serra, finanziando altrove progetti giudicati ‘green’. Secondo l’Nrt, nei suoi primi trent’anni di vita il progetto in Kenya produrrà circa quarantuno milioni di tonnellate nette di crediti di carbonio vendibili, con un valore lordo economico di circa trecento-cinquecento milioni di dollari.
Ci ha pensato però uno studio condotto da Simon Counsell, ex direttore della Rainforest Foundation UK e Survival International, a ‘smontare’ le apparenti buone intenzioni del progetto, che risulta alla fine poco credibile e pieno di lacune. E che anzi, più che fare bene, impatterebbe su diritti e mezzi di sussistenza dei popoli che abitano il territorio.
Nel suo primo periodo (2013-2016), il Northern Kenya Grassland Carbon Project ha generato 3,2 milioni di crediti di carbonio, venduti principalmente a Netflix e Meta Platforms (ex Facebook). Cifre piuttosto alte di crediti sono state registrate anche nel periodo successivo (2017-2020), per cui però, come in precedenza, non si sa con chiarezza quanti soldi siano derivati e come siano poi stati spesi – anche se il trattato prevede che almeno il 30% sia destinato a finanziare obiettivi di conservazione scelti dalle comunità stesse.
📢 We're launching a new campaign to stop greenwashing "carbon offsetting" projects on Indigenous lands!
Here's why & how carbon colonialism is killing people and planet. #BloodCarbon
Listen, take action & share 👉 https://t.co/SCLta2vGJl@VerraStandards @NRT_Kenya @USAID pic.twitter.com/sEewfjfbBS
— Survival International (@Survival) March 16, 2023
Tra le altre criticità, Counsell ha rilevato che il progetto, prima dell’avvio, non ha previsto alcuna fase di approfondimento sull’impatto che avrebbe generato sulle comunità locali. Così come è assolutamente infondata la teoria per cui le tecniche di pascolo antiche e tradizionali utilizzate dai popoli pastorali siano meno efficienti delle pratiche commerciali ‘occidentalizzate’ con cui sono state sostituite. Anzi, «è invece dimostrato che il pascolo tradizionale non è correlato né a variazioni di vegetazione né a variazioni di livelli di carbonio nel suolo».
Se le popolazioni fossero state adeguatamente informate, e se avessero dovuto dare il proprio consenso, probabilmente non avrebbero mai permesso l’avvio di un progetto distruttivo come questo. «La fornitura di informazioni è stata limitata a un numero molto ristretto di persone, e per lo più solo molto tempo dopo l’inizio. Motivo per cui la base giuridica del progetto solleva problemi e interrogativi molto seri, in particolare sul diritto della Nrt di “possedere” e commerciare carbonio proveniente dai terreni interessati», si legge nel rapporto. Quello individuato da Survival International è, dunque, l’ennesimo sopruso ai danni dei diritti umani dei popoli indigeni, come evidenziato nella campagna ‘Carbonio insanguinato’. «Stanno rubando la terra degli indigeni nel nome della mitigazione del clima, quando invece sono loro i migliori conservazionisti di tutto quello che ci circonda», ha commentato Fiore Longo, antropologa culturale e ricercatrice per Survival International.
[di Gloria Ferrari]
Uomo Bianco vuole insegnare a Uomo Nero come si fanno gli affari. Per Uomo Bianco.
Apparentemente” verde” in realtà marroncino ripugnante, questo indirizzo, a sfavore delle popolazioni indigene, in tutto il globo.
Geniale!! Ma in terreni che non sono coltivati dall’Uomo togliendoli al pascolo degli animali, im Kenya come ovunque, sapete che succede? Che l’erba non essendo stata brucata è già alta quando finisce la stagione delle piogge, col caldo secca e…….via con gli incendi!!! Questo progetto deve averlo fatto un burocrate che non è mai stato in campagna!!